La tragedia greca sta diventando una pochade o, se vogliamo essere benevoli, una commedia degli errori e degli equivoci. Ogni giorno che passa viene spostata in avanti “la scadenza ultima” che adesso dovrebbe essere (condizionale d’obbligo) l’11 maggio. Il governo ellenico confonde le acque, i governi europei si lasciano confondere. È accaduto di nuovo al vertice di Riga, forse accadrà ancora. Fino a quando?



Angela Merkel, dopo l’incontro di ieri con Tsipras, ha detto che “bisogna fare di tutto per evitare un default”. Ma la richiesta del primo ministro greco (un accordo ponte entro fine aprile per sbloccare almeno una parte di aiuti in cambio di una parte di riforme) è finora impraticabile perché secondo i tecnici europei le riforme proposte da Atene lasciano aperti troppi interrogativi, soprattutto su coperture o misure “compensative”. 



Il ministro delle Finanze Yanis Varoufakis è un simpatico pasticcione. Un dilettante, lo hanno definito ieri alcuni esponenti dell’Eurogruppo; un piacione inconsistente, che si presenta con le sue camicie fuori dai pantaloni, la moto, la bella e ricca moglie con la quale beve champagne guardando il Partenone o meglio le sue rovine. Un greco espatriato per scelta (o per necessità), recuperato perché parla bene l’inglese e capisce di economia a differenza da tutti gli altri esponenti di Syriza. 

Varoufakis finora ha giocato a perdere tempo, se vogliamo essere benevoli. Né lui, né Tsipras hanno presentato qualcosa di serio. Sono stati eletti per rifiutare l’austerità della trojka. Bene, ma che cosa vogliono fare in alternativa? Il programma di Salonicco del quale tutti si sono dimenticati, a cominciare dai suoi estensori, è un elenco di desiderata senza possibilità concreta di essere realizzati. Tsipras e i suoi hanno detto “cose di sinistra”, ma non ne hanno fatta nemmeno una. 



Un equivoco di fondo, al di là delle chiacchiere populiste, sta nella composizione stessa di un governo di estrema sinistra che si regge grazie al sostengo di un partitino di destra il cui capo, Panos Kammenos, è stato il braccio destro di Kostas Karamanlis, cioè l’uomo che, insieme al suo predecessore Kostas Simits, ha portato la Grecia al fallimento. Oggi se ne sta buono, tranquillo, protetto, sui banchi del parlamento, pronto a rimettersi in gioco. Senza dimenticare che un fedele sostenitore ed ex ministro di Karamanlis, cioè Prokopis Pavlopoulos, è stato eletto presidente della Repubblica. 

Ora si è aperta una commissione d’inchiesta il cui obiettivo è trovare il responsabile di questo grande pasticcio. Ebbene la colpa verrà gettata sulle spalle di Papandreou. L’ex leader socialista senza dubbio ha commesso molti errori, ma siamo pronti a scommettere che gli altri se la caveranno in omaggio alla realpolitk, perché esiste un sodalizio di fatto tra l’attuale governo e la parte moderata di Nuova Democrazia guidata da Karamanlis. Buttarla in caciara serve a creare una cortina fumogena.

Bizantinismi politici che spesso sfuggono ai più, soprattutto a Bruxelles. Ma sono la riprova che Atene va avanti a forza di sotterfugi e finzioni. Se in molti, a cominciare da Mario Draghi, hanno perso la pazienza, hanno perfettamente ragione. Il debito greco, del resto, ormai è per due terzi nelle mani della Bce e dei paesi europei, tra i quali l’Italia che pure deve far fronte al proprio debito (se volessimo seguire la razionalità economica, l’Italia non dovrebbe essere il terzo paese creditore della Grecia, visto che le banche italiane non erano esposte affatto; ma tant’è, la regola vale solo per chi non ha il potere di sfuggirle).

La prima operazione verità, dunque, va fatta nei confronti di Syriza e dei suoi alleati. Tuttavia, in questo teatro dell’assurdo esiste un’altra verità, altrettanto certa anche se del tutto opposta. “Tra il 2008 e il 2013 il Pil greco è sceso del 27%, la spesa pubblica reale del 35%, i disoccupati sono arrivati al 28%, il deficit strutturale è calato del 20% del Pil, il bilancio primario è cresciuto del 12%”, come ricorda Adriana Cerretelli su Il Sole 24 Ore. E la storica corrispondente da Bruxelles si chiede: “Sforzo irrilevante? Ancora insufficiente?”. Domande retoriche perché la risposta è ovvia e rimanda all’irrazionalità economica e alla pericolosità politica della ricetta europea. 

La Grecia deve fare le riforme. Vero. Deve ridurre un settore pubblico inefficiente e ipertrofico, rivedere il sistema pensionistico, passare dall’assistenzialismo al lavoro produttivo, fare pagare gli evasori, compresi gli armatori che fanno il bello e cattivo tempo. Misure necessarie, non una politica di destra. Tsipras non ha presentato nulla di tutto ciò, solo chiacchiere, alternando pianti a minacce. E gli eurocrati? Hanno estratto un coniglio dal cappello? No, ripetono il solito mantra, senza nessun scatto di fantasia politica. 

L’obiettivo è far cadere Tsipras? E con quale alternativa? Si può costringerlo a un referendum sull’euro, ma è molto rischioso. L’aiuto di Putin è un bluff come i tanti ai quali i governi greci ci hanno abituato (e Tsipras in questo non si distingue, anzi). Tuttavia che cos’ha in mano Bruxelles per vedere le carte? Le banche e gli operatori di mercato si esercitano in scenari più o meno fantasiosi. Va per la maggiore l’idea di consentire il default, restando nell’euro; si tratta di introdurre un doppio regime monetario, uno per gli scambi interni e uno per quelli esteri, modello Cipro. Ma Cipro aveva accettato di bere l’amara medicina che Atene rifiuta. Non solo. Se il debito verrà comunque calcolato in euro, quale sarebbe il vantaggio? E perché la Bce e i governi europei dovrebbero accollarsi le perdite, mentre le banche complici nell’azzardo morale ne escono pulite visto che si sono tirate fuori proprio grazie ai salvataggi del 2010 e del 2012? 

La Grecia ha un prodotto lordo del 2% rispetto a quello europeo, mentre il suo debito è solo del 3%. Ma Lehman Brothers non era certo la più grande banca americana. E i subprime rappresentavano solo una minima parte dell’immenso ammontare di mutui concessi dalle grandi banche agli americani. Eppure abbiamo visto che cosa è successo nel 2008. Lo ricordava ieri Gillian Tett sul Financial Times. Vogliamo che capiti ancora?

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