Molti analisti stanno migliorando le stime di crescita del Pil italiano: mediamente, +0,7% nel 2015 e +1,5% nel 2016. Ma, se così, l’entità della ripresa non sarà sufficiente a riassorbire sostanzialmente l’occupazione persa durante la recessione, né a risanare situazioni di crisi. Inoltre, la ripresa verrà spinta da fattori contingenti (cambio favorevole, bassi costi dei carburanti, flussi turistici grazie a Expo e Giubileo) e non da una duratura riconfigurazione del modello più favorevole alla crescita.
Pertanto è doveroso chiedersi cosa succederà a partire dall’autunno del 2016 quando finirà l’iniezione di 1,1 trilioni di euro immessi dalla Bce nell’Eurozona acquistando titoli di debito, che favorisce l’export e l’importazione di turismo via svalutazione del cambio e riduce il costo del debito. Tralasciamo lo scenario relativo all’impatto del rialzo dei prezzi energetici perché è ancora vago.
Al momento basta simulare la fine dell’intervento Bce e assumere la continuità del modello per proiettare una tendenza di crescita media dal 2017 al 2020 che, nel migliore dei casi, resterà attorno all’1%. Per esempio, Prometeia stima una crescita dello 1,6% nel 2016, ma un numero minore già nel 2017. Altri, tra cui il mio gruppo di ricerca, inseriscono nello scenario un aumento del costo del debito quando la Bce smetterà di garantirlo acquistandolo. Il mercato, infatti, vedrà un debito che non scende o lo fa troppo poco e un Pil stagnante e ne ricaverà che l’Italia non riuscirà a sostenere, in prospettiva, il debito stesso. Quindi pretenderà un premio di rischio crescente per rifinanziarlo e ciò potrebbe riportare l’Italia nella situazione catastrofica del 2011, dove il maggior costo di rifinanziamento fu coperto da un suicida aumento delle tasse che provocò una depressione.
Tale pericolo può essere evitato in due modi: (a) cambiare modello tagliando sostanzialmente, in 3 o 4 anni, spesa e tasse (almeno per 90 miliardi, cioè 5,5 punti di Pil circa) per mostrare al mercato che l’Italia potrà crescere molto di più e quindi sostenere il debito; (b) oppure, se non si cambia modello, ridurre una parte rilevante del debito vendendo 400-500 miliardi di patrimonio pubblico (con formule di cartolarizzazione) per portare il rapporto debito/Pil verso un più sostenibile 100%, risparmiando almeno 15-18 miliardi all’anno di spesa per interessi, cioè un punto di Pil.
La realtà impone questa scelta, ma il governo mostra di non volerla fare con la complicazione di illudere che irrisorie modifiche di modello possano risolvere il problema. Ciò (ri)mette a rischio l’Italia.