Niente sarà più come prima nell’industria dell’auto. L’uomo, settantottenne, che ha traghettato Volkswagen da una crisi apparentemente irreversibile fino a portare il gruppo a un passo dalla leadership mondiale, è stato costretto a dare le dimissioni. Ferdinand Piech, uno dei nipoti di quel Porsche che creò il Maggiolino, grande azionista del gruppo tedesco di cui è stato Ceo per dieci anni fino al 2002 e in seguito presidente del suo Consiglio di sorveglianza nei seguenti tredici anni, “papà” del sistema Quattro dell’Audi e soprattutto deus ex machina di tutte le decisioni importanti nel gruppo Volkswagen negli ultimi trent’anni, è stato messo alla porta dai sindacati, dal rappresentante della Bassa Sassonia e dai suoi parenti Porsche con un aut aut: o ti dimetti oppure ti sfiduciamo noi.



La lotta per il potere aveva avuto inizio una decina di giorni prima, quando lo stesso Ferdinand Piech aveva, in un’intervista a Der Spiegel, attaccato l’amministratore delegato del Gruppo Vw, Martin Winterkorn, suo ex delfino, accusandolo di non essere riuscito a sfondare negli Usa, di non aver saputo fare un’auto low cost e di non aver tagliato i costi come doveva. Qualche giorno dopo il Consiglio di sorveglianza, in una riunione fiume, ha messo in minoranza Piech e ha confermato la fiducia all’amministratore delegato. Poi c’è stata la redde rationem con l’uscita di Piech e la fine di un vero e proprio regno. Perché Piech non era, per niente, un “anziano presidente onorario”.



Chi ha lavorato ai vertici dell’azienda tedesca racconta di meeting, pesantissimi e ai massimi vertici, organizzati da Piech solo per provare, su strada e in segreto, le auto della Casa e della concorrenza, e di una competenza tecnica in grado di dare dei punti alla maggior parte degli ingegneri della casa di Wolfsburg.

Tutti sanno, poi, che il recente arrivo nella grande famiglia Volkswagen delle moto Ducati e dell’Italdesign di Giorgietto Giugiaro erano farina del suo sacco. Così come la scelta di allargare la gamma di auto comprando Lamborghini, Bentley, o i camion della Man. Come anche, dal punto di vista tecnico, l’utilizzo di piattaforme flessibili per la produzione di automobili che andassero bene per tutti i – molti – modelli del Gruppo.



Un padre-padrone, Piech, che da una parte ha fatto sempre e solo quello che ha voluto, compreso estromettere alcuni dei maggiori dirigenti, ma che dall’altra ha portato il gruppo a un passo dalla leadership mondiale con un’azienda che macina utili – o li macinava fino a poco tempo fa – risultati, mercati e concorrenti.

Ma cos’è quella cosa che ha coalizzato gli interessi della Bassa Sassonia, quelli dei sindacati e quelli di Angela Merkel, che tutti i commentatori ponevano dalla parte di Martin Winterkorn? Per arrivare a un finale così dirompente lo scoglio su cui la portaerei di Piech è andata a sbattere deve essere stato, per forza, di dimensioni enormi. E se quello che ci hanno raccontato è vero, lo è. Non bastano certo, come alcuni commentatori detto, le parole di Winterkorn, che avevano descritto un Piech, malato e in uscita. Il vero scoglio si chiama Fiat Chrysler Automobiles.

Il patriarca la voleva e Winterkorn, più politico e meno visionario, no. Piech non ha mai negato di essere interessato ad Alfa Romeo e non ha mai nascosto la sua ammirazione per Ferrari. In più, almeno due delle accuse rivolte dal patriarca all’amministratore delegato del gruppo (l’auto low cost e gli Usa) si sarebbero risolte da sole con un merger con Fca. Il Sussidiario.net è stato tra i primi a parlarne quasi un anno fa e, di recente, lo stesso Marchionne, ad di Fca, aveva confermato l’ipotesi parlando di possibili matrimoni con Gm, Ford o Volkswagen. I primi due costruttori hanno smentito ufficialmente e, a dire il vero, non si capiscono neanche quali potrebbero essere i vantaggi di un merger a stelle e strisce. Il costruttore tedesco non ha mai negato che ci fossero dei colloqui.

Ora, con l’uscita di Piech, l’accordo si è allontanato e non di poco. Gli interessi dei lavoratori tedeschi, la spocchia anti-Fiat del cancelliere tedesco, già emersa nell’affaire Opel, la volontà del Land della Bassa Sassonia, sui cui territori ci sono una buona parte degli stabilimenti tedeschi, hanno vinto su una logica industriale. O più semplicemente è stata una questione di prezzo: quello che Piech era disposto ad accettare per coronare il sogno di una vita era troppo alto per gli altri grandi stakeholder del gruppo, che hanno risposto picche. La crescita in Borsa dell’azione Volkswagen dopo la notizia dell’uscita di Piech si può spiegare anche così: meglio nessun matrimonio, che un matrimonio troppo costoso.

L’accordo è certo più lontano, ma non del tutto sfumato perché Piech ha ancora alcune carte da mettere sul tavolo. Per capire quali sono, bisogna sapere che il 50,07% di Volkswagen è in mano a Porsche Holding SE, una società finanziaria (che nulla ha più a che fare con la marca di automobili finita nel carniere di Wolfsburg) controllata dai discendenti di Porsche. Piech, naturalmente, ha una quota di questa holding e l’affaire Fca potrebbe trasformarsi in una questione di famiglia con un “patriarca” schierato nella sua ultima battaglia contro tutti e tutto.