Alexis Tsipras è decisamente un “ingenuo”. Alcuni suoi ministri, placcati di lauree e pubblicazioni scientifiche, degli “onirici”, altri, ex-comunisti o ex-sindacalisti o ex funzionari di partito, dei “nostalgici”. Trascorre il tempo – si avvicinano i classici primi cento giorni – e si sta manifestando lo scarso spessore politico della compagine governativa. Metafora del disordine politico sono gli uffici della sede centrale di Syriza. Entrando si ha l’impressione – per chi è avanti negli anni – di fare un tuffo nel passato: lo stesso disordine dello spazio che regnava nelle sedi di “Lotta continua” o di “Potere Operaio”. Metafora, in greco significa anche “trasloco”, appunto il disordine è traslocato negli uffici del potere, perché un dato deve essere chiaro: Syriza non è mai stato un partito, nel senso politico del termine, quanto una costellazione di gruppuscoli che si sono uniti per spuntare un risultato elettorale che permettesse di superare la soglia di sbarramento.
Nelle ultime tre tornate elettorali Syriza è passata dal 4,6% (2009) al 16,8% (maggio 2012) e al 26,9% (giugno 2012). Un’indubbia scalata al vertice che preannunciava la vittoria, tuttavia non si è certamente attrezzato per governare il Paese, nonostante la sua percentuale di votanti aumentasse. Si dovevano mantenere in equilibrio i rapporti interni, anzi è sempre stata la corrente intellettual-massimalista a dettare la linea politica. Si è discusso soprattutto di teoria politica e di tattica parlamentare, in ragione del fatto che nessun dirigente ha mai ricoperto una carica politica di responsabilità.
Due giorni fa si è riunita la segreteria politica di Syriza, in cui Tsipras ha esposto lo stato delle cose – a breve si arriverà a un accordo, ha precisato – e ha ribadito la sua volontà di indire un referendum qualora non si arrivasse a un “onorevole compromesso” con i creditori. Ma quale compromesso? Si è chiesto Panagiotis Lafazanis, leader della “Piattaforma di sinistra”. Meglio la rottura, ha sostenuto il nostalgico ministro dell’Energia. In un suo articolo, apparso ieri, Lafazanis, sostiene che “è fuori luogo pensare che l’impatto di una Grexit sia politicamente ed economicamente insignificante per il futuro dell’Europa. Il nostro governo non si piegherà mai, né si arrenderà. Non potrà firmare nuove misure che siano dannose per le classi lavoratrici. Syriza non accetterà un accordo che sia incompatibile con i suoi impegni radicali”.
Non mancano alcune considerazioni anti-imperialiste: “La Grecia di Syriza deve smettere di essere un terreno americano, un feudo tedesco o un satellite dell’asse mediorientale israelo-americano, e non sarà un Paese in vendita, privatizzando settori strategici dell’economia, delle industrie e delle strutture strutture”. E conclude con motivi neo-nazionalisti: “Siamo in grado di avere successo se come popolo dimostriamo unità, grinta, tenacia e resistenza e la forza verso le avversità temporanee”.
Anche nel “blocco del Presidente” si sono alzate voci di dissenso. Il titolo di un articolo è emblematico: “Rottura, la strada per un ‘compromesso reciprocamente vantaggioso'”, autore Christos Laskos, del Comitato centrale e co-autore, con Efklidis Tsakalotos, di alcuni saggi di economia. Nell’articolo Laskos sostiene che non ci sono margini di trattativa sulle pensioni, sui rapporti di lavoro e sull’aumento della pressione fiscale. E conclude: “O ci danno i soldi o noi non paghiamo le rate del debito: è una loro scelta”. Un altro componente del Comitato centrale, Jorgos Albanis, ha scritto che “l’ora zero” deve essere stabilita dal governo e non dai creditori e che di fronte al loro ricatto si deve adottare la terza soluzione, quella della rottura.
Comunque sia, l’impressione che si ha, parlando, con i “syrizei” è che le dichiarazioni di Tsipras, le sue manovre e i suoi diktat verso gli europei, siano rivolte soprattutto alla sua base, e non all’opinione pubblica, la quale si trova oggi in uno stato di confusione che si manifesta ormai nella critica all’azione di governo. Ultimo argomento di dibattito pubblico: il referendum. Seguirà, a breve, quello sulle nuove tasse, compresa quella famigerata sulla prima casa che Tsipras aveva promesso di abolire e che era stata la pietra tombale di Samaras, perché il governo sembra essere costretto a mantenerla qualora non si raggiunga l’obiettivo dell’aumento del Pil all’1,4% e dell’attivo di bilancio dell’1,2%. Percentuali queste difficili da ottenere, in ragione dell’attuale situazione di riserva monetaria.
È stato calcolato che il referendum verrebbe a costare 110 milioni di euro. Chi pagherà? Ovviamente il cittadino. Il governo ha pensato alla strategia del “giorno dopo”? Nonostante la dichiarazione di Tsipras, referendum significa altre elezioni. Supponiamo che l’accordo con i creditori internazionali “ecceda il mandato” (o le promesse elettorali), come ha ribadito Tsipras, che poi sarebbe quello di “non ripetere il circolo vizioso di austerità, miseria e saccheggio”, e supponiamo che il primo ministro si rivolga alla nazione dicendo: “Cari amici e compagni, gli imperialisti ci impediscono di attuare il nostro programma di governo che voi avete sottoscritto, quindi abbiamo bisogno del vostro parere per attuare le misure di austerià che ci impongono, le stesse chieste al precedente governo, e che sono la condizione per un nuovo salvataggio”. Supponiamo che lo zoccolo duro di coloro che vogliono restare nell’euro – oggi sette greci su dieci – risponda “meglio l’euro della dracma”. Dai risultati emergerebbe dunque una forte maggioranza in favore dell’euro e contro la politica di “rottura”. A quel punto che cosa farà Tsipras? Ne prenderà atto e sarà costretto alle dimissioni, oppure dovrà applicare quelle riforme contro cui si è battuto, ma non avrà più una maggioranza parlamentare? Potrebbe essere sostenuto dalle opposizioni filo-euro, ma si troverebbe sotto costante ricatto.
Dunque, altre votazioni, seconda prevedibile vittoria di Syriza: con lo stesso programma? Con un altro programma ancora meno realistico? Otterrà la stessa percentuale? Potrà formare una maggioranza equivalente all’odierna? Di certo si verrebbe a creare un cortocircuito tra governo e società. In questo lasso di tempo che cosa succederebbe all’economia? Ecco la ragione per cui Tsipras si sta dimostrando un “ingenuo”.
Non ha calcolato altresì le reazioni dei creditori, i quali potrebbero sentirsi ricattati da Atene. Lo stesso ricatto lo fece Jorgos Papandreou alcuni anni fa, ma venne “convocato” a Cannes e venne neutralizzato. E non deve sembrare strano che nel momento in cui il primo ministro cambia la “testa di ariete” e riavvia le trattative se ne esca con l’ipotesi del referendum. Non va dimenticato che a febbraio venne stipulato un accordo per trovare un accordo entro la fine di questo mese per concludere gli impegni e quindi ottenere la tranche di 7,2 miliardi. Resta tutto per aria, al momento. Il governo, presentando ieri al “Brussels Group” il disegno di legge omnibus, spera di arrivare a un “accordo minimum”, stando alla definizione data dal vice primo ministro, il “moderato” Yannis Dragasakis. A questo punto arduo contare le parole e gli aggettivi che accompagnano o definiscono questo “accordo”.
Tsipras non ha ancora chiarito a se stesso e ai suoi ministri che il suo governo è stato eletto per governare, per prendere decisioni, per assumersi delle responsabilitàa, e non per scaricare sulle spalle della società alcune decisioni che riguardano il futuro del Paese. I greci non si sono già espressi, una buona parte di loro “turandosi il naso” tre mesi fa? Tsipras, tra una telefonata e una dichiarazione, dovrebbe anche contare i miliardi che sono stati prelevati dai conti correnti per paura del peggio. Può immaginare che cosa succederebbe nel caso in cui i prossimi tre o quattro mesi il Paese vivesse nella totale incertezza?
La politica “à la carte” paga in ragione dell’evanescenza delle dichiarazioni fatte, ma si rifiuta di prendere coscienza della realtà. È questa la contraddizione di questo governo. Il tanto decantato “programma di Salonicco” (canovaccio delle promesse elettorali) era, secondo Syriza, pronto per essere applicato e votato, anzi, le riforme che avrebbe presentato il futuro governo erano già corredate da numeri e percentuali. Erano “bugie”, cioè promesse elettorali. Già nel settembre del 2014 Syriza era sicuro della sua vittoria, anzi era sicuro della sconfitta di Samaras. Se avesse pensato al bene del Paese avrebbe redatto un programma di governo più realistico e meno vincolato a promesse irrealizzabili.