Rallenta la ripresa dell’occupazione in Usa. Ma le Borse, a differenza di quel che è accaduto nel recente passato, non festeggiano la notizia. Fino a pochi mesi fa, ogni notizia negativa sul fronte dell’occupazione veniva salutata con un certo sollievo dai mercati, quale garanzia sulla continuazione della politica espansiva della Fed. Oggi, però, fanno capolino altre preoccupazioni. Certo, la frenata allontana nel tempo l’aumento dei tassi. Ma i benefici della liquidità abbondante sono sempre più modesti: le aziende non hanno bisogno di soldi e la montagna di quattrini che le banche hanno depositato presso la banca centrale (così come sta avvenendo in Europa) fa pensare che l’aumento, lieve e graduale nel tempo, che la Fed si accinge a varare non cambierà la congiuntura almeno nel breve.
In cambio, i dati sul lavoro, assieme alla frenata della produzione industriale e dei consumi di beni durevoli, dimostrano che la ripresa Usa non è poi così solida. La sensazione, poi, è che qualsiasi accelerazione della congiuntura, sarà vanificata dai rialzi del dollaro. Insomma, il Qe aiuta. Ma è assai difficile passare dalla convalescenza alla piena guarigione, anche se i risultati ci sono e si vedono. La disoccupazione è al 5,5%, la metà dei tassi europei. E tornano a salire le buste paga, ultimo caso Mc Donald’s, a dimostrazione che si avvertono le prime tensioni sul mercato del lavoro.
Questi successi sono però temperati dal disagio, anche psicologico, provocato dalla costante caduta di attività tradizionali e non, investite dall’irruzione di nuove tecnologie e nuovi metodi di lavoro. La prospettiva di fabbriche, uffici e anche centri di ricerca affidati a robot è ormai tangibile e fa da eloquente sfondo agli incubi del cittadino comune. La sensazione, in sintesi, è che l’economia Usa sia destinata a crescere a ritmo ridotto, frenata dal dollaro, ma anche dalla latitanza degli spiriti animali Usa.
Uno sguardo su quanto accade in Usa serve a capire quanto lunga sarà la strada della ripresa europea. Il Vecchio continente entra nel secondo trimestre del 2015 con un carica d’entusiasmo sconosciuto da otto anni, cioè prima dello scoppio della grande crisi. Lo confermano i dati sulla ripresa dell’industria, le previsioni favorevoli sull’andamento dei consumi e altri indicatori positivi sugli umori delle famiglie. Ma alla grande festa continua a mancare un ingrediente essenziale: l’occupazione. E si dà per scontato, al di là degli slanci retorici, che il miglioramento della congiuntura, non porterà grandi progressi in materia.
Gli ultimi dati in arrivo dalla Bce non permettono infatti di farsi illusioni: nel 2017, quando l’economia dell’eurozona sarà tornata su tassi di sviluppo “normali” (attorno al 2% annuo), la disoccupazione sarà poco sotto il 10%. Il tasso “naturale” di disoccupazione sarà allora nell’ordine del 9,9%. Ovvero quasi un cittadino su dieci sarà fuori dal mercato del lavoro. Ma il numero aumenta se si tiene conto di chi non cercherà più un impiego perché scoraggiato dall’assenza di prospettive. Naturalmente il problema assume in Italia tinte ben più fosche: non solo l’incidenza dei senza lavoro è più alta della media europea, ma è fortemente squilibrata tra Nord e Sud.
Insomma, la ripresa in atto non sembra sufficiente ad avviare alla soluzione il problema dei problemi, cioè l’assenza di lavoro che erode come un tarlo la stabilità della democrazia, facendo balenare l’incubo di una società con un alto tasso di esclusi.
Al di sotto delle iniezioni di denaro del Qe, dunque, il vero cancro della crisi, costata alla sola Italia oltre un milione e mezzo di disoccupati in più, è tutt’altro che rimosso. Né si vedono in arrivo terapie convincenti. Intanto, lungo questi anni dedicati, con scarso successo, al taglio del debito (tra il 2007 e il 2015 il debito Ue è salito di quasi 30 punti fino al 95% del Pil) il problema è passato in secondo piano, quasi che, per fare ripartire la macchina fosse sufficiente riaprire il rubinetto del credito grazie al Quantitative easing. Ma l’arma monetaria, in questo senso, non può fare molto: un recente studio della Bri (da sempre scettica su questa decisione di politica monetaria) calcola che l’abbondante iniezione di liquidità nel sistema potrà aumentare l’occupazione solo dello 0,13%. Cioè, nulla o quasi nulla. Le armi della politica monetaria hanno svolto e svolgeranno un ruolo prezioso per altre ragioni, ma per affrontare il nodo del lavoro ci vuole altro.
Ne è consapevole il presidente della Bce che continua a sottolineare la necessità di riforme strutturali. In assenza di una politica fiscale convincente, tali riforme, comprese il Jobs Act, possono aiutare, però “hanno l’effetto di una dieta per un malato di polmonite: quando hai conti in bancarotta, anche se fai la dieta resti in profondo rosso”, come ammonisce Richard Koo di Nomura. Il suo consiglio? Una massiccia iniezione di intervento pubblico che compensi l’assenza dei capitali privati. Peccato che le regole Ue vietino questa terapia, almeno per i singoli Paesi. Ci vorrebbe un intervento comunitario ben più robusta del piano Juncker, ma gli Eurobond ormai non sono che un sogno in fondo al cassetto.
Lungimiranza vorrebbe che i paesi che aderiscono all’Ue decidessero di mettere in comune una parte della loro politica fiscale, con gli opportuni controlli di merito. Il rapporto debito/Pil, ad esempio, potrebbe essere calcolato a livello europeo e non dei singoli Stati: così sarebbe possibile scendere dall’attuale 95% al 60% in pochi anni, garantendo però la solidità dell’euro. In questo modo, forti della liquidità garantita dal Qe europeo e da banche più forti grazie alle iniezioni di capitale imposte dalla Vigilanza bancaria, le imprese del Vecchio continente potrebbero riprendere la strada della creazione di catene di produzione intra-comunitarie, un processo avviato con la nascita dell’euro e bruscamente interrotto nel 2008, quando i processi produttivi nell’area euro hanno lasciato il passo a una politica basata sulla delocalizzazione oltre le frontiere dell’Ue. In questo modo, potrebbe essere avviato un processo di consolidamento della Comunità basato sugli investimenti nella cosiddetta “periferia”, capace di alimentare una ripresa dei consumi interni.
È possibile una svolta del genere? Probabilmente è necessaria, se si vuol trovare una soluzione sistemica ai problemi dei paesi più indebitati e, nel lungo termine, alla tenuta della stessa Comunità. È importante guardare oltre la soglia dei problemi più immediati: inutile elargire quattrini alla Grecia se non si ha in mente un piano di investimenti sostenibile. Senza dimenticare sfide ancor più delicate.
A differenza di quel che accade negli Usa, il tema della jobless recovery, cioè della ripresa senza creazione di nuovi posti, non è oggetto dell’attenzione che dovrebbe meritare. Eppure, è ormai certo che, per far ripartire l’occupazione, non basta il segno più accanto alle tabelle del Pil. Non è più solo questione di far ripartire la macchina preesistente, ma di battere strade nuove.