Cameron ha dimostrato che l’austerity può essere vincente al voto. Cameron ora fa tremare la City. Con Cameron – hanno notato con accenti diversi Antonio Polito su Il Corriere della Sera e lo scrittore pakistano Hanif Kureishi su Repubblica – si è imposta la destra capitalista contro la sinistra identitaria: allargando nel contempo la frattura fra “Europa” e “anti-Europa” che non corre certo solo lungo i bassi fondali della Manica, ma molto più in profondità attraverso l’intero Vecchio Continente. Sono tre affermazioni di commento all’esito del voto britannico che si possono in egual misura accogliere o contestare.
È vero che il governo Cameron ha imposto al Regno Unito una dura politica di bilancio: ma principalmente a base di spending review, diremmo in buon italiano. Un’austerità “thatcheriana”, che certamente non è piaciuta agli studenti (immigrati) delle scuole pubbliche inglesi, che infatti qualche sabato di fuoco a Londra l’hanno puntualmente messo in scena. Ma quell’austerity ha evitato ai loro genitori una pressione fiscale aggregata del 44% (Italia 2013, record nell’Ue): Cameron ha tenuto al 34% non solo quella media, ma soprattutto quella sulle imprese (metà di quella italiana e dieci punti percentuali al di sotto della media Ue). Una politica di bilancio che ha azzerato le imposte sull’acquisto di case fino a 125mila sterline e non ha mai dovuto fare i conti con i giudizi costituzionali tedeschi o italiani.
È vero anche che una Goldman Sachs ha paventato il ritiro dalla City se il referendum del 2017 dovesse accelerare l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. Ma è anche vero anche che proprio Londra ha fatto rientrare ai Comuni il vulcanico Lord Mayor, Boris Johnson, dalla porta destra rispetto a Cameron: di cui è già pre-candidato successore, naturalmente sullo stesso trampolino sostanzialmente anti-Ue della City. E perché mai – a Milano (Mediobanca) o nella vicina Lugano – avremmo assistito – durante la premiership Cameron – a un esodo di banchieri verso la City? Sarà pur vero che la stretta sui bonus dei top banker è ancora sul tavolo, ma sembra soprattutto un’arma negoziale di un premier rafforzato: che tra l’altro deve ancora ri-privatizzare le grandi banche nazionali crollate dopo il 2008.
Ci sono pochi dubbi, comunque, che la Gran Bretagna di Cameron tornerà isolazionista, gelosa della propria sovranità monetaria e finanziaria: naturalmente con il favore delle banche stesse, che evidentemente sono ora preoccupate di gestire a dovere “l’arbitraggio” – soprattutto regolamentare – fra la Bruxelles degli eurocrati e una Londra rinata come piazza offshore. Perché non ci sono dubbi – nel globo – su chi è davvero “pro-business” fra Cameron e l’Antitrust Ue che attacca Google sulle tasse. Non ci sono dubbi sul perché la ripresa è andata in onda nel Regno Unito di Cameron e non in un’Europa dilaniata fra Merkel, Draghi, Tsipras, Hollande, Renzi.
È vero – infine – che Cameron è un oxfordiano liberal-conservatore: ma poche settimane fa il colosso ex pubblico dell’energia British Gas è stato acquisito da Shell (storica bandiera petrolifera anglo-olandese) in una limpida operazione dirigistica di consolidamento dell’Azienda-Britannia sullo scacchiere energetico globale.
E che dire del no sbrigativo di Downing Street all’offerta di Pfizer su Astrazeneca? È la “sinistra identitaria” italiana che vibra colpi tafazziani contro le banche popolari per compiacere la City e la Bce mentre teme (si vergogna) di nazionalizzare il Montepaschi di Siena ridotto a una cloaca. È Renzi – che purtroppo non è Cameron, ma neppure Blair – che ha piazzato alle Poste un amico che parla inglese come Francesco Caio, ma non riesce a privatizzare le Poste come ha fatto il governo di Sua Maestà: incassando due miliardi di sterline con un’operazione di sei settimane, tenendo a bordo 100mila dipendenti e soprattutto la proprietà inglese dal 1516.