Nel giorno in cui l’Istat certificava un primo segnale di ripresa del Pil italiano nel primo trimestre di quest’anno, da più parti sentivo risuonare la medesima musica (spesso strumentale al fine di screditare l’azione di politica economica del governo, verso la quale come sapete sono tutt’altro che tenero): occorre guardare al modello spagnolo, l’unico che ha saputo risorgere dalla crisi. E, in effetti, i numeri sono tutti dalla parte di Madrid. 



La stima preliminare del Pil del primo trimestre della Spagna ha mostrato un incremento dello 0,9% rispetto ai tre mesi precedenti, stando a dati resi noti dall’Ufficio di statistica spagnolo (Ine), aggiungendo che a livello annuale il Pil, sempre nei primi tre mesi dell’anno, si è espanso del 2,6%. Invece l’indice dei prezzi al consumo armonizzato (Ipca) preliminare è sceso dello 0,7% su base annuale nel mese di aprile, visto che a marzo l’indice dei prezzi al consumo armonizzato era sceso dello 0,8% sempre a livello annuale. E ancora, il numero di cittadini registrati come disoccupati presso i servizi sociali spagnoli ad aprile è sceso di 118.923 unità rispetto a marzo, toccando quota 4 milioni e 333.016, la maggiore flessione mai registrata in tale mese dal 1996, quando sono iniziate le serie storiche. Rispetto all’aprile 2014, i disoccupati registrati in Spagna sono scesi di 175.495 unità, un calo pari al 7,5%. Intendiamoci, parliamo sempre di un tasso di disoccupazione del 23,8% nel primo trimestre di quest’anno, il dato peggior dell’eurozona dopo la Grecia, ma il calo è davvero impressionante. 



E quale sarebbe il segreto del successo del governo Rajoy? A inizio anno, l’aliquota fiscale massima è scesa dal 52% al 47%, mentre la minima da 27% a 24% e, in caso alle elezioni di fine anno il Pp dovesse essere confermato alla guida del Paese, l’intenzione è di abbassarle ulteriormente nel corso del 2016 rispettivamente al 45% e 23%. Per Holger Sandte di Nordea, «le riforme fatte in economia cominciano a essere visibili in Spagna e la riforma della tassazione è stata di fondamentale importanza». Resta però un Paese in deflazione da dieci mesi, ma si sa che con una crescita del genere gli effetti negativi della bassa inflazione tendono a essere mitigati, almeno sul breve-medio periodo, tanto che essendo dovuta principalmente al calo del prezzo del petrolio e non essendo espansa ad altri beni e servizi, di fatto funziona come “taglio fiscale” destinato ad aumentare i consumi. 



Per Credit Suisse, «è tempo di raccolto per l’economia dell’Europa del Sud, la quale si sta rafforzando in modo significativo e l’ottima ripresa della Spagna può essere l’esempio per mostrare i risultati degli sforzi applicati nelle riforme strutturali», tanto che gli analisti di Hsbc hanno alzato il loro target di crescita per il 2015 dal 2,1% al 2,7%, poco più in basso del target di espansione del 2,9% preventivato dal governo. 

Attenzione però a quello che vi dico sempre, ovvero a guardare anche sotto la superficie delle cose. Primo, la serie di risultati eclatanti legati al Pil spagnolo è cominciata guarda casa quando l’esecutivo ha arbitrariamente deciso di includere da subito nel computo della crescita anche le attività illegali come spaccio e prostituzione: ed è triste dover ammettere come queste due voci pesino e non solo in Spagna. 

Ma veniamo al numero più impressionante, quello del calo degli occupati registrato ad aprile. Guardate il grafico a fondo pagina, ci mostra come la comparazione tra lavori part-time e lavori a tempo pieno ci rimandi un quadro già visto, quello dell’America di Obama che grazie ai posti legati al programma Obamacare ha visto crescere i dati tendenziali ma otto anni dopo la depressione deve ancora vedere i lavori full-time superare il picco pre-crisi. La Spagna ricorda molto questo paradosso, perché un’economia che parla di Pil a quelle percentuali non può basarsi su un’istituzionalizzazione e una strutturalizzazione del part-time. Almeno non se vuole porre le basi per una ripresa solida che non crolli come un castello di carte al primo scossone e ne vedo almeno un paio all’orizzonte: il voto politico che si terrà tra ottobre e novembre – con Podemos a oggi primo partito – e il rischio di default greco. 

A livello macro, quindi, la Spagna continua a basarsi su dinamiche fragili, alta disoccupazione tamponata in parte solo dall’aumento esponenziale di lavoro part-time o stagionali e una riforma fiscale che, in caso il Pp non dovesse restare al potere, potrebbe anche essere rivista, avendo Podemos già parlato di tassa patrimoniale e ristrutturazione di parte del debito pubblico. Stando a dati ufficiali, solo un lavoro su dieci creato in marzo è per una posizione permanente, mentre il numero di contratti a tempo determinato è cresciuto al tasso doppio di quelli a tempo indeterminato. 

Durante il primo trimestre di quest’anno, il numero di persone che hanno lavorato con contratto temporaneo è cresciuto anno su anno del 5,42%, contro quelli a tempo determinato al solo 2,71%. Stessa ratio per part-time e full-time, con i primi cresciuti nei primi tre mesi di quest’anno al tasso annualizzato del 3,83% e i secondi del 2,91%, con due lavoratori su dieci in Spagna che lavorano meno di 35 ore la settimana. Infine, sempre stando a dati del ministero del Lavoro, nel primo trimestre di quest’anno i tre lavori che hanno conosciuti incrementi maggiori sono quelli del comparto agricolo, i camerieri e gli addetti alle pulizie, con il dato di aprile – mese in cui in Spagna comincia la stagione turistica – che ha visto oltre il 50% dei nuovi lavori legati al ramo alberghiero e con scadenza del contratto entro fine anno. 

Insomma, anche in Spagna non è tutto oro quello che luccica. Certamente meglio un lavoro part-time o a tempo determinato che nulla, soprattutto se l’alternativa è quella della sparizione nell’economia sommersa del nero o peggio del cedimento psicologico alla schiavitù da sussidio (o alla rincorsa di chimere come il reddito alla cittadinanza alla Grillo), ma ripeto la mia obiezione: queste sono basi per una ripresa temporalmente limitata, non strutturali per un cambio di dimensione. Soprattutto, quei posti di lavoro non solo sono limitati a contingenze (il periodo del turismo estivo, che però può anche subire un calo se altre mete meno care della Spagna si lanceranno sulla concorrenza estera, come fece qualche anno fa la Croazia), ma hanno una struttura di per sé limitata e limitante, ovvero incapaci di generare un flusso di spesa e consumo virtuoso per l’economia in generale. 

 

In parole povere, rischiamo di restare intrappolati in una società di stampo statunitense basata su una moltitudine di persone che vivono “paycheck after paycheck”, ovvero i cui consumi o stock di debito vanno a erodere da subito il salario, rendendo impossibili spese ulteriori e soprattutto raccolta di risparmio. Attenzione quindi ai trionfalismi, l’Europa non è l’America e non ha la struttura di mobilità sociale ed economica degli Usa, i quali stanno in questo periodo saggiando essi stessi cosa significhi la distruzione della classe media perpetuata da politiche come quella della Fed a tutto vantaggio unicamente di banche e Wall Street. 

Non avremo mai ripresa reale se non si riattiverà, seriamente e in fretta, il meccanismo di trasmissione del credito verso aziende e famiglie e il Qe della Bce attivato a marzo sta ottenendo risultati tutt’altro che rosei al riguardo, anzi. E con l’Euribor a tre mesi in negativo non è accettabile né il tasso anemico di crescita di prestiti e mutui che stiamo vedendo, né tantomeno la politica perversa di ricarico dei costi attraverso l’applicazione di “spread alla filiale”, visto che fino a oggi le banche hanno beneficiato e molto delle politiche governative e degli aiutini dell’Ue. 

Serve fare una cosa e in questo caso forse l’esempio spagnolo può essere calzante: turarsi il naso e accettare l’idea della bad bank per il sistema bancario zombie italiano, in modo da riprezzare portafogli di detenzioni azionarie ma soprattutto abbassare gli stock devastanti di sofferenze e incagli. Dopodiché, chiedere una moratoria parziale dall’implementazione di Basilea III e parlare molto chiaramente ai banchieri: la festa, adesso, è finita, si torna a gestire risparmio ed erogare credito, chi vuol fare soldi con trading e derivati rinuncia a raccolta e filiali (sportelli bancomat inclusi). 

Ma tornando alle dinamiche spagnole, che sono poi quelle europee, vi anticipavo il secondo rischio che si corre, ovvero il cosiddetto “Grexit”. Bene, il grafico a fondo pagina ci dice che potrebbe essere molto vicina la sua ora. Tranquilli, non sono impazzito del tutto: si tratta dei guadagni del titolo Fortress Paper Ltd. negli ultimi cinque giorni di trading, +74% ai massimi da quindici mesi, un boom inspiegabile anche per il management dell’azienda canadese che ha detto di essere all’oscuro di qualsiasi ragione possa averlo innescato. Ma cosa fa la Fortress Paper Ltd? Lo dice il nome stesso, è nel ramo cartario e controlla al 100% la sussidiaria Landqart AG, leader mondiale nella manifatture di banconote e certificati di sicurezza. Guarda caso, al picco della crisi nel 2012 si registrò un rally simile sul titolo quando, con timing e delicatezza perfetti, la Fortress Paper Ltd annunciò di aver ricevuto un ordine per la stampa di banconote, immediatamente facendo pensare a un’uscita imminente dall’euro di Grecia o Spagna o Italia. 

Questa volta il titolo sta salendo non sulla scorta di una notizia reale ma forse su due certezze: primo, è pronto il design per sei nuove banconote di dracma (all’epoca ve ne avevo mostrate alcune) e nelle istituzioni europee si parla sempre più apertamente di una possibile soluzione legata a una valuta parallela per Atene. Coincidenze? Può essere. O forse no.