Persistendo nell’ormai consueto abuso della decretazione d’urgenza, il Governo in carica, con il d.l. n. 3/2015, ha disposto una radicale riforma delle banche popolari – allo scopo di definitivamente ridurle a un tipo recessivo di azienda di credito e necessariamente minore per posizione sul mercato – in assenza di ogni presupposto che legittimasse il ricorso all’art. 77 Cost. e in violazione dell’art. 15 l. n. 400/1988, che del primo costituisce attuazione: non soltanto, infatti, il provvedimento concerne materie riservate al procedimento legislativo ordinario ex art. 72, co. 4, Cost. (tali essendo il credito e il risparmio in forza dell’art. 47 Cost.), ma, per di più, esso non contiene misure di immediata applicazione (v. art. 1, co. 2, che fissa in 18 mesi decorrenti, si badi, dalla data di entrata in vigore delle norme attuative del decreto, che devono essere adottate dalla Banca d’Italia, il termine per la prima applicazione della riforma che qui interessa), mentre il contenuto non è affatto omogeneo (vi sono disposizioni che riguardano il credito alle piccole e medie imprese, la garanzia dello Stato per le amministrazioni straordinarie, la tassazione dei redditi derivanti dai beni immateriali, ecc.); né, ancora, può dirsi corrispondere al titolo dell’atto che è del tutto generico (Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti) e, per ciò stesso, incapace di prestarsi alla funzione di parametro che gli attribuirebbe il cit. art. 15 l. n. 400/1988.
In questa sede si vorrebbero segnalare, in sintetico compendio, i punti di maggiore criticità del d.l. in parola, riservando a una prossima occasione un’illustrazione con maggior dettaglio, non senza, a mo’ di premessa, rilevare, per un verso, la preoccupante inclinazione – mostrata dagli esecutivi che si sono succeduti dall’autunno del 2011 – a intervenire in settori nevralgici dell’ordinamento alterando la dinamica costituzionale del procedimento normativo: basti qui rammentare il notissimo d.l. n. 133/2013, con il quale si è fatto luogo a una riforma della Banca d’Italia, resa, caso assolutamente singolare, ente pubblico a struttura associativa con partecipazione prevalente di soggetti privati; per altro verso, l’eloquente incoerenza – in un contesto già caratterizzato da diverse anomalie di insaturazione e svolgimento del rapporto fiduciario tra le Camere e il Governo – tra la volontà manifestata dall’esecutivo con il d.d.l. di riforma costituzionale, che introdurrebbe nella Carta fondamentale proprio le disposizioni dell’art. 15 l. n. 400/1988, e la ricorrente violazione di tali disposizioni.
L’opportunità di richiamare nuovamente l’attenzione su un provvedimento che è stato già oggetto di numerose contestazioni in sede di cronaca politico-economica trova ragione nella recentissima notizia che il Consiglio regionale della Lombardia ha approvato una mozione urgente ex art. 124 del Regolamento generale, presentata dal Gruppo Consiliare “Maroni Presidente”, intesa a impegnare il Presidente e la Giunta regionale “a valutare i profili di incostituzionalità atti a ricorrere in via principale avverso la Legge n. 33 del 24/03/2015 che ha convertito in legge il Decreto-Legge n. 3 del 24/01/2015 “Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti, e a depositare il ricorso presso la cancellerie della Corte costituzionale nel rispetto dei termini previsti”. Proprio ieri, poi, la Giunta ha dato mandato all’avvocatura di presentare ricorso.
Le banche popolari – come rammenta la mozione – nascono, infatti, in Lombardia alla metà del XIX secolo e ivi, oggi ancora, esse svolgono una funzione che incide sull’assetto economico-sociale in misura maggiore di quanto accade altrove in Italia. D’altra parte, l’art. 117, co. 3, Cost. attribuisce alla competenza legislativa cosiddetta concorrente delle Regioni a statuto ordinario la materia delle “casse rurali, aziende di credito a carattere regionale”: ciò nonostante, e di contro allo specifico legame delle banche popolari con i territori locali, lo Stato ha introdotto una disciplina non solo di principio, bensì anche di dettaglio, senza tenere in alcun conto le prerogative regionali. Di qui la determinazione della Regione Lombardia di impugnare in via principale la legge di conversione del d.l. n. 3/2015.
Tali istituti rappresentano una delle forme di esercizio dell’attività bancaria da parte di società cooperative (pertanto ricadente nell’area di tutela dell’art. 45 Cost.), l’altra essendo quella delle banche di credito cooperativo. L’aggettivo “popolare” può infatti essere utilizzato esclusivamente da banche che assumono la struttura di società cooperative: esso segnala il diretto legame di tali istituti con l’art. 47 Cost, che impegna la Repubblica a favorire l’accesso del risparmio alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese, e trova altresì positivo riscontro nell’art. 29, co. 4, del Testo unico bancario (Tub), in forza del quale “il numero minimo dei soci non può essere inferiore a duecento. Qualora tale numero diminuisca, la compagine sociale deve essere reintegrata entro un anno; in caso contrario la banca è posta in liquidazione”.
La struttura, l’organizzazione e il funzionamento delle popolari corrispondono quindi al principio di mutualità, quale “metodo essenzialmente democratico di produrre” (E. Simonetto, La cooperazione e lo scopo mutualistico, in Riv. soc., 1971, 279 ss.), che è presente anche in tali banche “e si rivela, nel sistema normativo, sufficiente a fondare l’identità e l’organizzazione cooperativistiche dell’impresa” (G. Oppo, Quesiti in tema di trasformazione e fusione eterogenea di banche popolari, in Banca borsa tit. cred., 1992, I, 780): il voto è capitario (una testa un voto, dunque, a prescindere dal numero di azioni possedute), ciascun socio non può detenere, anche indirettamente, azioni che eccedano l’1% del capitale sociale, non è ammesso che la nomina dei componenti degli organi di amministrazione sia confidato a terzi estranei alla compagine societaria, vige il principio della cosiddetta porta aperta, salva la possibilità che il consiglio di amministrazione respinga la domanda di ammissione (ma con obbligo di motivare “avuto riguardo all’interesse della società, alle prescrizioni statutarie e allo spirito della forma cooperativa”), la quota di utili che, detratto il 10% da destinare obbligatoriamente a riserva legale, non sia assegnata ad altre riserve, ad altre destinazioni statutarie o non sia distribuita ai soci deve devolversi “a beneficenza o assistenza”.
Pur con le peculiarità che si devono alla specifica natura dell’ambito nel quale operano – e più in generale all’evoluzione della cooperazione verso il contemperamento tra il fine mutualistico e le esigenze imprenditoriali e di mercato, che “sospinge la cooperazione verso una funzione di attivazione economica di gruppi sociali, mutando anche la gerarchia dei suoi tradizionali valori, causale e strutturale” (G. Oppo, op. loc. citt.) – nondimeno la funzione mutualistica è senz’altro ravvisabile nella gestione del servizio a favore dei soci, che si traduce (almeno) nel dovere degli organi sociali di tutelare l’interesse del socio alla prestazione mutualistica (ad esempio, la fruizione dei servizi bancari a condizioni agevolate, ma anche la produzione degli utili, tanto più nelle condizioni attuali di struttura del mercato creditizio, mediante una struttura che ha già in sé carattere mutualistico).
Sotto altro aspetto, i caratteri propri delle banche popolari – e in particolare quello consistente nella facoltà di integrale distribuzione degli utili non destinati a riserva legale, che segna uno dei tratti differenziali rispetto alle banche di credito cooperativo – trova compensazione riequilibrativa nella sottrazione di tali enti all’applicazione delle disposizioni di cui al d.lgs. n. 1577/1947 e, quindi, ai regimi di agevolazione tributaria dei quali godono le altre società cooperative (ma vedasi anche art. 223-duodecies, ult. co., disp. att. c.c.)
La corrispondenza dell’assetto normativo così articolato agli interessi costituzionali tutelati e garantiti dagli artt. 45 e 47 Cost., in particolare e, più in generale, da quelli di cui agli artt. 2, 3, 4, 18, 35, 41, 42 Cost. avrebbe implicato il divieto per il legislatore non solo di sottrarre alla disponibilità dei privati tale tipo societario, ma anche e comunque di ostacolarne o disincentivarne la costituzione e l’esercizio, in quella forma, dell’attività creditizia.
Viceversa il Governo, con il d.l. n. 3/2015, ha introdotto all’art. 29 del Tub il co. 2 bis, che così testualmente recita: “L’attivo della banca popolare non può superare 8 miliardi di euro. Se la banca è capogruppo di un gruppo bancario, il limite è determinato a livello consolidato”.
In altri termini, le banche popolari – in contrasto con il suddetto compendio di interessi – vengono colpite da una misura di disincentivazione, sotto forma di una sostanziale capitis deminutio: esse non possono più essere oggetto di una gestione che ne faccia crescere l’attivo oltre il suddetto limite degli 8 miliardi di euro. Tale crescita, ove non contrastata da provvedimenti che ne comportino la sua riduzione entro un anno dal fatidico superamento (e dunque da decisioni potenzialmente contrarie all’interesse dell’impresa cooperativa) ovvero assunta a presupposto di trasformazione della banca popolare in società per azioni ai sensi dell’art. 31 Tub, esso pure novellato dal provvedimento d’urgenza, legittima la Banca d’Italia “tenuto conto delle circostanze e dell’entità del superamento” ad “adottare il divieto di intraprendere nuove operazioni ai sensi dell’articolo 78, o i provvedimenti previsti nel titolo IV, capo I, o proporre alla Banca centrale europea la revoca dell’autorizzazione all’attività bancaria e al ministro dell’Economia e delle finanze la liquidazione coatta amministrativa. Restano fermi i poteri di intervento e sanzionatori attribuiti alla Banca d’Italia dal presente decreto legislativo”.
In estrema sintesi, d’un balzo solo espropriando i diritti contrattuali dei soci e consentendo anche a maggioranze “semplificate” di assumere (coactus tamen voluit) una determinazione che in altri tempi avrebbe richiesto unanime consenso, il Governo interdice alle banche popolari la facoltà di concorrere con aziende di credito che abbiano forma capitalistica pura e, sovvertendo la struttura democratica delle banche popolari e i loro caratteri, che, si badi, impediscono concentrazioni, scalate e speculazioni, anche quando l’istituto sia quotato in borsa, le espone all’acquisizione di grandi gruppi.
(1- continua)