Il presidente del Consiglio Renzi ha incontrato l’altra sera il capo dello Stato Mattarella e a quanto riportano alcuni quotidiani gli avrebbe spiegato che “il peso finanziario della sentenza” della Corte costituzionale sulle pensioni di fatto “obbliga il governo” a riconsiderare tutti i conti di bilancio. Un’operazione che secondo il premier non potrà avvenire prima della prossima Legge di stabilità. Le richieste inserite nella sentenza della Corte costituzionale si sommano ai vincoli della Commissione Ue la quale per il 2015 esige che l’Italia rispetti il vincolo del rapporto deficit/Pil pari al 2,6%. Ne abbiamo parlato con Nicola Rossi, docente di Analisi economica presso l’Università Tor Vergata di Roma ed ex deputato prima del Pd e poi del Gruppo Misto.
Come ritiene che vadano saldate le somme che lo Stato deve ai pensionati dopo la sentenza della Consulta?
In primo luogo occorre operare una distinzione. Il pregresso è in realtà un esborso una tantum, e quindi in linea di principio potrebbe essere coperto con un’entrata a sua volta una tantum. C’è poi un problema di adeguamento delle pensioni per gli anni a venire, perché ci sarebbe una base diversa su cui effettuare il ricalcolo dell’indicizzazione anno dopo anno. In questo caso non può non esserci quindi una copertura permanente.
La sentenza della Consulta potrebbe avere effetti negativi sul Pil?
Il governo intende coprire una parte del buco con il tesoretto, o meglio con un debito addizionale di un punto di Pil. La restante parte sarà coperta con maggiori entrate, e l’impatto sul Pil dipenderà dal fatto di scegliere tra tagli di spesa e maggiori imposte. Ci sono però evidenti difficoltà a realizzare tagli di spesa.
Perché?
Già dalla spending review non emergevano tutti i risparmi necessari per rimettere in ordine i conti prima della sentenza della Corte costituzionale. Posso immaginare che ora il problema sia molto più serio. Non so inoltre se si riuscirà a realizzare dei tagli di spesa, su questo ho dei dubbi molto forti perché l’impostazione che è stata data alla spending review è di tipo funzionale e non strategico, e ciò la condanna a non essere realmente produttiva.
In che modo possiamo riuscire a non subire troppo le pressioni di Bruxelles, che di fatto mentre ci impone di tagliare il deficit blocca la crescita del nostro Pil?
Non diamo a Bruxelles colpe che non sono sue. La verità è che l’Italia ha un bilancio pubblico in condizioni di grande fragilità. Se noi avessimo usato il 2013 e 2014 per mettere completamente in sicurezza il bilancio pubblico, oggi avremmo margini di manovra superiori. Invece si è scelto di arrivare “al pelo”, in modo da poter sfruttare tutti gli spazi possibili nell’illusione di rilanciare l’economia facendo un po’ di spesa pubblica.
Con quali conseguenze?
La conseguenza ovvia è che ora ci troviamo in difficoltà. Il problema non è Bruxelles, bensì la politica economica poco ragionevole del governo Renzi. Con una congiuntura internazionale così favorevole, avremmo potuto fare molto di più dal punto di vista del rientro dal debito pubblico.
Come si fa a rispettare i vincoli di bilancio con un sistema previdenziale così costoso come quello italiano?
Se noi avessimo avviato la spending review già nel 2014, oggi avremmo ben altri margini di manovra. Si è scelto invece di allontanare Cottarelli e di limitare enormemente lo spettro della spending review, e il risultato è quello che vediamo. Noi chiediamo sempre “come si fa” quando ormai è troppo tardi, mentre bisognava pensarci prima. Il governo dovrebbe compiere quantomeno un minimo di autocritica sulle scelte realizzate nel 2014.
Probabilmente l’Europa ci chiederà una clausola di salvaguardia per assicurarsi che rispetteremo i vincoli di bilancio. C’è il rischio che l’Italia si trovi a dover rincorrere una clausola di salvaguardia dopo l’altra?
Questa è una cosa che sicuramente avverrà. L’unica possibile via d’uscita sarebbe decidersi di dire agli italiani che la messa in sicurezza del bilancio pubblico e la riduzione del debito in questo momento sono il nostro principale problema. E che quest’ultimo rende necessari avanzi primari consistenti per un lungo periodo di tempo e un abbattimento del debito attraverso tutte le possibili operazioni di privatizzazione.
(Pietro Vernizzi)