A volte è quantomeno lecito chiedersi se gli ingranaggi che regolano il funzionamento delle istituzioni democratiche di un Paese stiano funzionando a dovere oppure no, anche quando l’istituzione in questione è la Corte costituzionale, suprema autorità che dovrebbe garantire super partes il rispetto dei principi cardine contenuti nella nostra Carta costituzionale. Non farlo significherebbe rinunciare a uno spirito critico e costruttivo, fondamentale per stimolare lo sviluppo di un assetto democratico che non può considerarsi autoreferenziale, ma che deve confrontarsi con una società e un mondo esterno che cambiano sempre più rapidamente e con impatti decisivi sulla vita di ogni cittadino.



È per questo che non dovrebbero destare particolare scalpore le critiche mosse nei confronti della recente decisione della Consulta, che con la sentenza 70/2015 ha dichiarato incostituzionale la famigerata riforma delle pensioni targata Fornero, nella parte in cui prevedeva, per gli anni 2012 e 2013, il blocco dell’adeguamento automatico al tasso di inflazione per gli assegni pensionistici superiori a tre volte il trattamento minimo Inps (circa 1.500 euro). La sentenza, se applicata letteralmente, implicherebbe la restituzione integrale di quanto non corrisposto, creando un aggravio imprevisto per la finanza pubblica che, secondo quanto riportato da Il Sole 24 ore, è stato stimato in circa 8,7 miliardi per il triennio 2012-2014, 1,9 miliardi per l’anno in corso e 3,5 per il prossimo biennio, quindi un “buco” totale di oltre 17 miliardi di spesa imprevista che metterebbe a rischio la stabilità dei conti pubblici. Un imprevisto di cui il Governo avrebbe volentieri fatto a meno, anche perché sulla faccenda si sono subito accesi i riflettori della Commissione europea, la quale ha dichiarato che la questione sarà “seguita con attenzione nei prossimi passi”, nonostante per ora non vi siano ancora warning ufficiali. 



Non è difficile immaginare che se l’esecutivo si troverà alle strette, costretto a trovare il modo per recuperare questi 17 miliardi, il tutto si tramuterà in un ulteriore inasprimento fiscale, considerando l’ormai acclarata incapacità dei governi, sia dell’attuale che dei precedenti, di agire in maniera razionale sul fronte dei tagli alla spesa pubblica inefficiente, sebbene gli spazi a disposizione in tal senso (come già mostrato su queste pagine) continuino a essere molto ampi.

Pur non essendo un costituzionalista, voglio supporre che la sentenza della Corte sia ineccepibile da un punto di vista giuridico, anche se da più parti si parla di una situazione borderline, al limite dello sconfinamento, con un intervento a gamba tesa su scelte redistributive e allocative della spesa che dovrebbero spettare soltanto al governo e alla discrezionalità della politica. Certamente qualche perplessità è lecita, soprattutto leggendo che il provvedimento è stato ritenuto incostituzionale in quanto, alterando il principio di eguaglianza e ragionevolezza, l’interesse generale dei pensionati sarebbe stato “irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio”. 



Chissà se i giudici costituzionali hanno riflettuto sulle motivazioni, le ragioni e il contesto in cui quella norma è stata approvata, chissà se ricordano l’andamento della curva dello spread e lo spettro del default che incombeva sul Paese. Ma soprattutto, chissà se hanno riflettuto su un concetto che dovrebbe essere alla base di una visione di sviluppo del nostro sistema democratico, un concetto che troppe volte viene dimenticato, tralasciato, sminuito e accantonato, ma che meriterebbe, eccome se la meriterebbe, un’adeguata tutela costituzionale: “l’equità generazionale”. 

Ricordiamoci, infatti, che lo Stato non paga mai con soldi propri, paga con quelli dei contribuenti, presenti o futuri che siano. Un’altra volta saranno quindi le generazioni più giovani, con maggiori tasse e contributi sociali, a doversi fare carico del buco che si aprirà nei conti pubblici a seguito di un intervento della Corte costituzionale e che appare palesemente rivolto al passato, all’affannato mantenimento di uno status quo e che sembra non preoccuparsi dell’evoluzione del contesto sociale del Paese. 

Per queste ragioni, anche se indirettamente, la decisione della Consulta dovrebbe paradossalmente riaprire gli occhi del dibattito pubblico, politico e istituzionale sulla questione dell’equità generazionale del nostro sistema pensionistico, questione su cui nessuno ha il coraggio di mettere seriamente le mani, anche perché si tratta di andare a toccare dei diritti (o privilegi?) acquisiti, cosa assai difficile in Italia. 

Andando oltre le pensioni d’oro e le baby pensioni, lo squilibrio più grande è determinato dalle pensioni retributive, visto che chi ne beneficia tendenzialmente percepisce un importo molto superiore rispetto ai contributi realmente versati nel corso della propria vita lavorativa. Cosa che sarà ovviamente impossibile per le future generazioni, le stesse che oggi si trovano a pagare (parecchio) per un sistema previdenziale che non potrà assicurare loro nulla per la vecchiaia. Per quanto ancora potremo far finta di nulla?

Esiste solo una soluzione idonea a risolvere questo problema alla radice e sarebbe quella di rideterminare l’importo delle pensioni retributive, applicando il metodo contributivo per tutti. Un intervento di questo tipo non sarebbe giustificabile e auspicabile solamente sotto il profilo del contenimento e della razionalizzazione della spesa pubblica (ricordiamo che la spesa previdenziale assorbe circa un terzo del bilancio pubblico), ma risponderebbe soprattutto a un principio di equità generazionale, gravemente minacciata da quello che appare come un ingiustificato trasferimento di risorse a favore delle attuali generazioni di pensionati, ma a danno delle generazioni più giovani.

Probabilmente l’entità di questa sperequazione è colpevolmente sottostimata dalle stesse generazioni più giovani, che forse alla pensione nemmeno arrivano a pensarci, essendo quotidianamente alle prese con altri problemi legati al lavoro, alla disoccupazione, a un Paese che in generale sembra sempre più arroccato sulla difesa dei diritti acquisiti per pochi, piuttosto che mostrare interesse nel trovare una via di sviluppo che possa garantire condizioni migliori per tutti.

Con il passare degli anni lo squilibrio generazionale del sistema previdenziale italiano sta assumendo dimensioni sempre più ingiustificabili e sta aumentando anche la consapevolezza di questa evidenza tra la popolazione. Boeri, il neo-presidente presidente dell’Inps, ha garantito (cosa per la verità già fatta puntualmente dal suo predecessore) che presto verrà messo a punto un sistema grazie al quale tutti saranno in grado di conoscere l’ammontare della propria futura pensione. A quel punto tutti potranno facilmente confrontare l’entità dei contributi che versano con gli importi che riscuoteranno una volta in pensione e credo che le notizie per i miei coetanei trentenni saranno molto amare. 

Anche se i giudici della Consulta se ne potranno lavare le mani, perché in Italia l’equità generazionale non è un principio garantito dalla nostra moderna, e sempre al passo con i tempi, Carta costituzionale.