Anteriormente all’entrata in vigore del d.l. n. 3/2015 (di cui abbiamo cominciato a parlare in un precedente articolo), le trasformazioni delle banche popolari – si intende: quelle deliberate dalle assemblee con le maggioranze necessarie per le modifiche statutarie – erano soggette ad autorizzazione della Banca d’Italia, che poteva concederla “nell’interesse dei creditori ovvero per esigenze di rafforzamento patrimoniale ovvero a fini di razionalizzazione del sistema”. Prima ancora, invece, tali trasformazioni erano vietate, anche quando fossero deliberate all’unanimità (art. 14 l. n. 127/1971), in ragione della caratterizzazione causale e del “diverso apprezzamento sociale e legislativo della società cooperativa” (G. Oppo, op. cit., 778): di qui la conclusione che, a voler ritenere che il cit. art. 14 non si applicasse alle popolari, perché contenuto in un provvedimento normativo destinato a modificarne altro a esse estraneo, sarebbe stata necessaria l’unanimità, dal momento che la trasformazione della banca popolare e, dunque, di una società cooperativa in società per azioni non concerne solo l’oggetto sociale o il tipo, ma “investe la causa e i diritti essenziali che derivano dal contratto sociale (basti pensare alla perdita dei diritti e della posizione di parità collegati alla regola ‘democratica’)” (G. Oppo, op. cit., 783 s.).
Già la previsione della facoltà di trasformazione con le maggioranze previste per le modifiche statutarie rappresentava una forzatura di dubbia legittimità costituzionale, benché salvaguardasse, almeno, l’autonomia della compagine sociale: inaudita è invece la scelta governativa di rendere tale determinazione necessaria alla sussistenza stessa della società, quando essa, come si è visto, abbia raggiunto soglie patrimoniali ragguardevoli.
La cogenza della scelta e il sacrificio correlativamente imposto ai singoli soci sono aggravati sia dalla predisposizione di un apparato sanzionatorio, sia dalla potestà della Banca d’Italia “laddove ciò sia necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca” (art. 28, ult. co., Tub, come modificato dal d.l. n. 3/2015) di limitare il diritto del socio, che, a causa della trasformazione, intenda recedere, al rimborso delle azioni, nonché di limitare il diritto al rimborso degli altri strumenti di capitale emessi.
Nessuna ragione – tantomeno evincibile dal complesso delle disposizioni del d.l. n. 3/2015 – è idonea a giustificare tali disposizioni e a renderle immuni dal sospetto di violazione di diverse norme della Carta costituzionale. Il mero superamento di una soglia quantitativa dell’attivo non può in alcun modo valere quale praesumptio iuris et de iure di incompatibilità con il carattere di mutualità: al contrario (e in tal senso militano anche i dati dei 150 anni di storia di tale modello e, più ancora, quelli che attestano il ruolo anticiclico svolto dalla popolari durante la recente, profondissima crisi), esso conferma semmai l’idoneità all’esercizio dell’attività creditizia anche di un modello organizzativo pienamente conforme ai valori costituzionali, portatore in quanto tale di una funzione sociale riconosciuta dalla Repubblica. Tali risultati dovrebbero, quindi, essere incentivati, giusta lo specifico precetto dell’art. 45 Cost., che fa carico alla legge di promuovere e favorire l’incremento della cooperazione “con i mezzi più idonei”.
Il provvedimento in questione non solo si muove in direzione esattamente opposta, ma appare oggettivamente indirizzato a un fine diverso da quello, pur enunciato dalla Banca d’Italia in sede di audizione dinnanzi alla Commissioni riunite Finanze e Attività produttive della Camera dei Deputati nel corso dell’istruttoria relativa al d.d.l. di conversione, di rafforzare e rendere più stabili le banche popolari “maggiori”.
Fermo restando quanto sopra si è detto con riferimento ai parametri di legalità costituzionale – che sembrano purtroppo scolorire anche nella considerazione dei rappresentanti delle istituzioni statali – le misure adottate, oltre che illegittime per contrasto, tra gli altri, con gli artt. 41, 42, 45 e 47 Cost., non sono neppure congrue rispetto al fine enunciato, dal momento che le ridette banche “maggiori” potrebbero, ad esempio, evitare la trasformazione dando luogo a operazioni di scissione che, creando due istituti di più ridotte dimensioni, rientrerebbero ampiamente nel limite di legge: il “problema” che la riforma si propone di risolvere è dunque quello dell’esistenza stessa di banche popolari le cui maggiori dimensioni sono evidentemente sgradite.
Ad affrontare eventuali problemi di stabilità, infatti, sarebbe stata sufficiente la previgente versione dell’art. 31, che consentiva – lo si è visto – la trasformazione (su richiesta, come dovrebbe essere ovvio, della banca stessa) anche per esigenze di rafforzamento patrimoniale; mentre le violazioni di criteri normativi prudenziali e le gestioni irregolari erano e sono sanzionabili con provvedimenti molto penetranti, senza che vi sia alcuna necessità di forzare gli istituti alla trasformazione.
Viceversa, a conferma dello sviamento causale di cui si viene dicendo, tali misure sanzionatorie vengono poste a presidio del divieto di superamento del ricitato limite di attivo, benché esse, con riferimento a quel che qui interessa, siano state concepite, quanto al divieto di intraprendere nuove operazioni, per fattispecie di violazione di disposizioni legislative o amministrative o statutarie che regolano l’attività delle banche autorizzate dalla Banca d’Italia e per irregolarità di gestione (art. 78 Tub) e, quanto allo scioglimento degli organi di amministrazione e di controllo, per gravi irregolarità nell’amministrazione, ovvero per gravi violazioni delle disposizioni legislative o statutarie o, ancora, in caso di previsione di gravi perdite del patrimonio (art. 70 Tub): il d.l. n. 3/2015 svincola, insomma, tali sanzioni dal loro tassativo presupposto e le converte in una sorta di strumento “minatorio”.
Di qui l’ovvia inferenza – confortata anche dalla agevole individuabilità dei soggetti immediatamente obbligati alla trasformazione o alla riduzione – che il risultato auspicato si rivela essere piuttosto quello di consentire ai soggetti egemoni nel mercato creditizio di acquisire le banche popolari più cospicue, una volta che siano stati sciolti i vincoli propri della forma cooperativa, che pure, come si è detto, dovrebbe essere incentivata, anche in ragione della sua stretta afferenza a principi supremi di struttura dell’ordinamento italiano, quali la democraticità dell’organizzazione economica, che è parte costitutiva della forma di Stato delineata dal Costituente italiano. Una tecnica che rammenta, per certi aspetti, quella utilizzata per consentire la “cessione” di importantissimi assets pubblici, dopo averli resi omogenei, quanto alla forma, ai potenziali acquirenti.
Proprio quei dati che – vi si è fatto cenno – depongono a favore della sussistenza in concreto della funzione e dell’utilità sociali della cooperazione nel settore bancario – e, quindi, della rispondenza ai parametri di cui agli artt. 45 Cost. e, in combinato con questo, agli artt. 41 e 42 Cost., ossia i buoni risultati di gestione, vengono invece convertiti in fonte di una sorta di obbligazione alternativa che, però, lascia in concreto un esiguo, se non nullo, margine di scelta: la riduzione dell’attivo e la trasformazione in SpA sono, infatti, due prestazioni non comparabili. D’altra parte, la minaccia del divieto di nuove operazioni o addirittura della revoca dell’autorizzazione all’attività bancaria (se non anche della liquidazione coatta amministrativa) – che ha un tono quasi bellico e una connotazione fortemente ideologica – rende quasi inevitabile l’accesso alla seconda (pseudo)opzione.
Non meno preoccupanti sono i profili di illegittimità costituzionale avuto riguardo alla posizione del singolo socio, il quale, mutando la causa del contratto sociale con deliberazione che, in seconda convocazione, richiede soltanto la maggioranza dei due terzi dei voti espressi “qualunque sia il numero dei soci intervenuti” (cfr. art. 31, co. 1, lett. b), Tub, come novellato dal d.l. n. 3/2015), è posto di fronte alla (pseudo)alternativa tra accettare la trasformazione (perdendo diritti essenziali del suo status di cooperatore) ovvero rifiutarla esercitando il diritto di recesso, ma col rischio concreto di perdere almeno una parte del valore delle sue azioni, in violazione degli artt. 2, 4, 18, 35, 41, 42, 45 e 47 Cost.
La trasformazione in società di capitali prelude, poi, al distacco delle banche popolari dal loro radicamento territoriale – del tutto ignorato dal Governo, in spregio anche dell’art. 117, co. 3, Cost. – che ne ha fatto, sino a oggi, un’aggregazione esponenziale delle economie locali e un supporto, anche in chiave di sussidiarietà ex art. 118 Cost. e in combinato con l’art. 45 Cost., delle attività imprenditoriali e professionali ivi stabilite, con risultati di particolare rilievo in termini di strumentalità dell’attività creditizia e finanziaria rispetto alla cosiddetta economia reale.
Il d.l. n. 3/2015 tocca, insomma, punti molto sensibili del tessuto normativo costituzionale, facendosi portatore di un disegno che non può in esso trovare alcuno spazio di legittimazione. Benissimo ha fatto, dunque, la Regione Lombardia, portando a effetto la sua commendevole iniziativa: ed è auspicabile che la Corte costituzionale voglia espungere la riforma delle banche popolari dal nostro ordinamento giuridico.
(2- fine)