“In passato si è bloccata l’indicizzazione delle pensioni, questo meccanismo è stato giudicato incostituzionale” dalla Consulta, la quale però “non ha detto che non si può fare il blocco, ma che quello non andava bene. C’è da ripensare quel modello”. Matteo Renzi, parlando ai microfoni di Radio Anch’io, ha di fatto ipotizzato di riscrivere il blocco dell’indicizzazione delle pensioni, sia pure secondo altre modalità, in modo da soddisfare le richieste della Consulta. Nella sentenza dei giudici costituzionali si parlava del “diritto a una prestazione previdenziale adeguata”, aggiungendo che tale diritto, costituzionalmente fondato, “risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio”. Ne abbiamo parlato con Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano.



Come si può affrontare il problema posto dalla Consulta con la sentenza sulle pensioni?

Da un lato si deve rispettare l’indicazione della Corte, e dall’altra bisogna evitare che tutto ciò diventi un ulteriore problema per le prospettive di crescita del Paese. Questa vicenda segnala un grande pericolo per il Paese, in quanto un’inflazione non rilevante ma accumulata nel tempo ha determinato una tassa sui redditi fissi, generando uno squilibrio molto forte.



Ora però il governo dovrà trovare una somma tra i 12 e i 15 miliardi da restituire ai pensionati…

Si dice che questi sono 15 miliardi di euro a carico dello Stato, ma bisogna ricordare che quella dei recenti governi è stata una politica economica non felice. E quindi il blocco dell’indicizzazione va letto anche come 15 miliardi in meno di potere d’acquisto per gli anziani. Stiamo assistendo a una guerra tra poveri. Un’economia che viene lentamente strangolata nel tempo, inevitabilmente diventa sempre più piccola. La stessa crescita del Pil italiano, pari allo 0,3%, va confrontata con il +0,6% della Francia e il +0,9% della Spagna.



Che cosa va fatto a questo punto?

La cosa peggiore che si potrebbe fare è aumentare ulteriormente l’imposizione fiscale, per rispondere in tempi immediati a quest’indicazione della Corte. L’indicazione della Corte va rispettata e, dal momento che la sentenza non indica tempi precisi, la restituzione ai pensionati va graduata nel tempo. Va inoltre tenuto conto che non avere un sistema di indicizzazione dei redditi, che peraltro è anche parziale, porta a uno strangolamento dell’economia. Uno strangolamento cui si aggiunge quello provocato da un carico fiscale sempre più elevato.

La sentenza della Consulta apre a una restituzione solo ai pensionati al di sotto di un certo reddito?

L’indicizzazione va comunque garantita a tutte le pensioni dai 2mila euro netti in giù. Dai 2mila netti in su, bisogna vedere invece quanti contributi sono stati pagati nel corso della vita lavorativa di ogni singola persona. Chi percepisce 5mila euro di pensione, dopo avere versato per tutta la sua vita dei contributi pari a una volta e mezzo quella cifra, non può essere toccato perché sarebbe come rubargli i soldi.

 

In che senso?

Poniamo che dall’inizio della sua carriera, un lavoratore versi i suoi contributi non allo Stato bensì a un’assicurazione privata: immaginiamoci che cosa accadrebbe se quest’ultima gli dicesse che non può ridargli i soldi. È quindi molto meglio non ragionare in termini di indicizzazione bensì di redditi, cioè di aliquote fiscali Irpef. Bisogna muoversi inoltre in modo più equilibrato, perché si passa dai vitalizi politici in cui le pensioni superano di gran lunga i contributi, a situazioni in cui una persona ha versato contributi che si vede tornare indietro solo in piccola parte.

 

Lei quale soglia sceglierebbe per l’indicizzazione?

Come soglia va considerata non tanto quella della povertà, bensì quella di una vita dignitosa. Al di sotto di un livello di vita dignitoso l’indicizzazione va assolutamente garantita, in quanto tutto può essere discusso tranne la dignità delle persone. La questione non è poi molto diversa da quella del reddito di cittadinanza. Non dimentichiamoci tra l’altro che per ragioni di speranza di vita la maggioranza delle pensioni appartiene a donne.

 

(Pietro Vernizzi)