Per una mera coincidenza, la mattina del 20 maggio è stato presentato il Rapporto annuale 2015 sull’economia italiana dell’Istat e il pomeriggio il Centro di ricerche e studi Luigi Einaudi, l’Istituto affari internazionali e Ubi Banca hanno organizzato un convegno per presentare il Rapporto Einaudi sull’economia italiana e globale, che ha come titolo “Un disperato bisogno di crescita”. Due documenti molto differenti: il primo è una radiografia statistica dell’economia, e della società italiana, nel 2014 con qualche previsione per i prossimi 24 mesi effettuate con il modello econometrico dell’Istat, in sigla MeMo-It, mentre il secondo intende forgiare un consenso su politiche di crescita a medio e lungo termine per l’intera economia europea, non solamente per l’Italia. Tuttavia, il “bisogno di crescita” è elemento centrale di ambedue. E delle numerose discussioni in atto in queste settimane.
Ad esempio, se l’Italia avesse un tasso di crescita del 2-2,5% l’anno come negli anni Ottanta (compatibile con le caratteristiche di fondo di una demografia sempre più all’insegna dell’invecchiamento e di un sistema produttivo frammentato e in numerosi casi obsoleto), non sarebbero state necessarie le difficili discussioni sulla perequazione dei trattamenti previdenziali delle ultime due settimane, dato che l’economia reale avrebbe in gran misura sostenuto un mercato del lavoro in grado di offrire prospettive pensionistiche almeno adeguate alle giovani generazioni.
È interessante notare che nel Rapporto Istat appena presentato, radiografia dell’anno appena concluso e previsioni a breve-medio termine sono accompagnate da “approfondimenti” pregnanti di politica economica a più lungo termine. Particolarmente significativa, e innovativa, l’analisi in cui i fattori ciclici della caduta degli investimenti vengono collegati, in un’ottica non solo italiana ma dell’intera area dell’euro, con le determinanti strutturali. È un approfondimento che acquista una valenza speciale in queste settimane in cui ci si chiede che il Piano Juncker , annunciato con molta fanfara alcuni mesi fa, rappresenti una prospettiva concreta di rilancio degli investimenti (pubblici e privati) e non sia, come altri “piani” europei del passato (Lamfalussy, Ortoli, Delors, solo per citare quelli che hanno avuto maggiore richiamo), un marchingegno mediatico per dire che, nel travaglio dei singoli paesi e dell’intera Ue, la Commissione europea è presente.
Il Rapporto Istat analizza, in primo luogo, la contrazione degli investimenti in rapporto al Pil nell’eurozona (dal 22,7% nel 2008 al 19,6% nel 2014), molto severa in Spagna (7,8 punti percentuali) ma molto dura anche in Italia (4,5 punti percentuali), dove ha coinvolto sia la componente delle costruzioni che quella delle macchine e delle attrezzature.
Nel documento Istat, c’è una notazione interessante che non ricordo essere stata presentata con pari enfasi nei Rapporti precedenti: la contrazione degli investimenti in prodotti della proprietà intellettuale (-1,5% tra il 2008 e il 2014). Soprattutto, nello stesso periodo, gli investimenti in ricerca e sviluppo (una determinante degli investimenti in prodotti della proprietà intellettuale) sono aumentati dell’11,8% nella media europea. Questo andamento asimmetrico merita di essere tenuto ben presente. Soprattutto dalla scuola di pensiero che chiamerei Io speriamo che me la cavo, ossia di coloro che pensano che la fantasia e l’ingegnosità italiana ci tireranno fuori da vari pasticci e problemi.
Il Rapporto nota che nell’ultimo trimestre 2014 gli investimenti hanno mostrato una leggera variazione positiva (+0,2%), da imputarsi principalmente ai settori delle attrezzature, delle macchine e degli armamenti. Il modello MeMo-Il – rileva il documento – indica che questo andamento generale continuerà nel 2015. Tuttavia, la teoria economica ci dice che gli investimenti in proprietà intellettuale hanno un andamento differente da quelli in costruzioni o in attrezzature. Senza entrare nei modelli di flow adjustment che spiegano l’andamento degli investimenti in proprietà intellettuale, è utile ricordare che le determinanti essenziali perché si investa in proprietà intellettuale sono i risultati operativi delle imprese e le condizioni di liquidità.
In parole povere, si investe in proprietà intellettuale (i cui benefici si toccano con mano nel lungo periodo) se le imprese non si barcamenano per sopravvivere e se hanno la liquidità da destinare, in parte, a ricerca e sviluppo. A sua volta, la liquidità che conta non è solamente quella dei libri contabili, ma quella “percepita” dagli imprenditori, determinata a sua volta da stabilità finanziaria e da una politica monetaria “accomodante” con tassi d’interesse contenuti.
Questo è un punto essenziale che credo pochi commentatori del Rapporto hanno visto (anche in quanto, come appropriato per un documento tecnico, il testo presenta i dati nudi e crudi ma non li enfatizza). In sintesi, le politiche monetarie e di finanza pubblica (il Quantitative easing e la “flessibilità ritrovata” di cui si vanta il Presidente del Consiglio) hanno un impatto sulla qualità degli investimenti (di cui, in un Paese come il nostro, i prodotti della proprietà intellettuale sono uno degli aspetti più importanti) unicamente se mantenuti nel medio periodo.
Italia e autorità europee, però, possono operare solo su alcune di queste determinanti. Altre, fondamentali, dipendono dal palazzone in stile tardo-fascista in Constitution Ave, N.W., dove ha sede la Federal Reserve americana.