“L’outlook economico per la zona euro è migliore oggi rispetto a quello dei sette lunghi anni passati. La politica monetaria sta arrivando all’economia. La crescita si sta riprendendo”. È il commento del governatore della Bce, Mario Draghi, il quale ha aggiunto: “Le condizioni economiche in Europa sono un po’ migliorate, ma la crescita è troppo bassa in tutti i Paesi dell’Eurozona”. Le sue parole giungono nel giorno in cui sono pubblicati due dati: quello sulle vendite al dettaglio in Italia, al -0,1%, e quello sull’indice Ifo della Germania, sempre al -0,1%. Ne abbiamo parlato con Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Che cosa ne pensa di queste due frasi apparentemente contraddittorie pronunciate da Draghi?
Draghi si è rivelato un grande governatore della Bce. Il fatto che sia riuscito a domare i mercati nel mezzo della speculazione del 2012 è stato un risultato straordinario, ed è a lui che sostanzialmente si deve la tenuta dell’euro. Se fosse intervenuto sei mesi prima probabilmente ci saremmo risparmiati due anni di crisi e la stessa manovra di austerità. Adesso Draghi sta cercando di fare altrettanto per la crescita, ma si tratta di un’impresa più complicata.
Perché?
Mentre nel 2012 i suoi interlocutori erano in platea ad ascoltarlo e lo presero sul serio, oggi gli interlocutori di Draghi sono un insieme di imprese e famiglie molto variegato, ed è molto più difficile fare arrivare loro un segnale altrettanto potente.
Le spinte esterne alla crescita italiana sono finite?
Di certo si sono indebolite, e questo non è un buon segnale. Gran parte della spinta iniziale di questa ripresa è dovuta a due fattori: da un lato, il fatto che le esportazioni tengono; dall’altro, un ciclo di rinnovo dei beni durevoli che finora è stato procrastinato, e adesso in parte sta riprendendo. La scommessa sulle esportazioni, che qualche mese fa era abbastanza forte, adesso lo è meno perché ci sono alcuni fattori che vanno presi con grande attenzione. In particolare, la tendenza del tasso di inflazione che continua a rimanere verso il basso e che nel Regno Unito è diventata negativa per la prima volta dopo tanti anni.
Le vendite al dettaglio a marzo in Italia sono calate dello 0,1%. Come valuta questo dato?
All’interno abbiamo un ciclo potenziale legato al rinnovo di beni durevoli, ma complessivamente le vendite al dettaglio non crescono. È una situazione di ristagno che non rappresenta una buona notizia. Conferma il fatto che nel +0,3% del Pil del primo trimestre la domanda interna non ha avuto un ruolo dinamico.
Lei quali scenari vede per l’Italia?
Mettendo insieme la debolezza della domanda interna con il mercato mondiale che rallenta, c’è il rischio di un’ulteriore decelerazione anche dell’Italia. Draghi segnala appunto che è in corso un parziale rallentamento, e proprio per questo annuncia che metterà in circolazione ancora più credito. Dopo di che bisogna però capire, e lo stesso Draghi non ha la sfera di cristallo, fino a dove questa disponibilità di credito aggiuntiva sarà utilizzata in modo tale da fare crescere l’economia, e non per esempio per acquistare quadri a prezzi astronomici.
Che cosa possiamo sperare a livello internazionale per il rilancio della ripresa italiana?
Il mondo dei Brics si sta dissolvendo. Il Brasile sta attraversando una crisi di maturità e la Russia è in difficoltà. L’auspicio è che possa arrivare qualcosa dall’India, che però per il momento è al palo, mentre la Cina sta attraversando a sua volta una crisi perché sta diventando una grande potenza. Quindi una spinta come ci è stata tra il 2000 e il 2013 è quasi irripetibile. Potrebbero esserci altre aree del pianeta in grado di trainare la ripresa, ma nel breve periodo il quadro non è chiaro.
Lei ha citato la dissoluzione dei Brics. Il fatto che l’Italia sia entrata nella Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture rappresenta un’opportunità?
Sì. Più siamo presenti in Cina e meglio è, si tratta di un mercato enorme anche se non facile. Il fatto di essere presenti e compartecipi è un elemento che aiuta. Essere nella Banca Asiatica significa avere un “piede” sui mercati asiatici che può fare molto bene e giovare a Paesi che producono buoni risultati. Va però tenuto conto del fatto che ciò non rappresenta un’esposizione particolarmente elevata in termini di rapporto tra esportazioni e Pil, mentre in dieci anni il rapporto esportazioni/Pil della Germania è raddoppiato. Ricordiamoci che nello stesso periodo in Giappone e Stati Uniti il rapporto è cresciuto soltanto del 20% o meno.
(Pietro Vernizzi)