È indubbio che leggendo gli articoli apparsi ultimamente su queste pagine (da quelli di Cazzola e Palmerini a quello “wagneriano” di Sapelli) un senso di smarrimento possa cogliere l’osservatore, e uno di turbamento possa avvolgere il lettore.
L’Italia, da una parte registrata dall’Istat, dall’altra illuminata dalle analisi passate del Censis, arriva nelle mani di Renzi come un Paese immobile, sclerotizzato, incapace di fare sistema, di far esplodere le sue potenzialità, ma ben capace di ripiegarsi su se stesso, cultore del “si stava meglio quando si stava peggio”, con ovvio riferimento alla Democrazia Cristiana e al Partito Socialista di 30 anni fa, senza considerare in profondità quanto fosse invece diffuso il potere non parlamentare del Partito Comunista, per poi, scalando nel tempo, arrivare al ventennio di Forza Italia.
È un Paese che non crede in se stesso se non durante i Campionati del Mondo e forse, ma in modo molto limitato, durante la sfilata del 2 giugno. Un Paese che non ama la memoria, ama la reminiscenza dell’impotenza, ostile al contributo per il cambiamento collettivo e affondato dalla logica dei clientes più che dei cives. Un Paese che ha sempre mostrato un’accondiscendenza passiva, più che un sostegno attivo alla sua Costituzione. E questo nonostante le figure giganti dei suoi veri leader e dei suoi veri Presidenti della Repubblica (Pertini, tanto per citarne uno) scoperti ben più di ciò che nel costume italico politico si pensava che fosse la figura del Presidente. Eppure come in ogni medaglia quando al rovescio si oppone un dritto, questa stessa Italia che veniva schiaffeggiata dalla Lega di Miglio può e deve rinascere.
Dalle sue statistiche si scopre e si ha conferma che reagendo continua a essere tra i primi paesi industrializzati, esportatore di vitalità imprenditoriale con le piccole e medie aziende, con le reti d’impresa e con i distretti industriali, grembo di cervelli capaci di misurarsi su innumerevoli campi e ugualmente in stadio avanzato sulla borderline delle aree grigie e nere della povertà.
Questa Italia, sulla quale il discorso sociologico dovrebbe iniziare proprio dal concetto di classe dirigente di Pareto, ci viene consegnata come un Paese che ha perso la consapevolezza dei suoi patrimoni e delle sue potenzialità. In Italia, ai difensori dei vitalizi e agli arroccati ai privilegi, si uniscono gli inattivi. Chi sono gli inattivi? Lo si chieda all’Istat impegnata sugli indicatori complementari al tasso di disoccupazione (definizione nominale e formale). Tali indicatori resi necessari per uniformarsi a quanto già prodotto nel contesto europeo, non avevano comunemente avuto riconoscimento su quale realtà essi potevano illuminare. E questo prima che una dirigente Istat con coraggio e quindi con bella faccia tosta gettasse luce sulla composizione del mondo del lavoro, con una misconosciuta intervista su una free copy di testata all’ingresso della metropolitana di Roma.
Sono inattivi, circa tre milioni di unità già nel 2011, gli individui che non cercano attivamente un lavoro, ma lo farebbero, e lo sono le persone che cercano lavoro ma non sono subito disponibili. Questo gruppo è fortemente caratterizzato dal fenomeno dello scoraggiamento: il 43% (circa 1,2 milioni di unità) dichiara di non aver cercato un impiego perché convinto di non riuscire a trovarlo.
Gli inattivi rientravano bellamente nelle citazioni della disoccupazione globale lanciate in automatico come palle su quei campi da tennis dell’informazione dove le grandi testate, dal Corsera a Repubblica, amavano tirarsele di dritto e di rovescio. Un gioco sconcertante questo perché non scostava un velo per mostrare come sotto la definizione formale e nominale ci fossero realtà composite sostanziali, tra le quali la realtà degli inattivi con un peso non solo statistico ma socioeconomico di rilievo, perché una delle architravi che disegnano l’attuale stato della famiglia media italiana, camera di compensazione, nel cui spazio, reddito, sostegno e solidarietà sono sostitutivi, e anche succedanei al ruolo che lo Stato (anche sociale con il suo welfare) ha scelto, privilegiando alcune politiche anziché altre.
Ma l’Italia è anche quella che a fronte degli inattivi ha visto comporsi in modo misurato la platea degli immigrati divenuti imprenditori, artigiani, lavoratori a tutto campo. Nelle frutterie gestite dai cingalesi, così come nei bar gestiti dai cinesi, il rilascio dello scontrino fiscale è quasi un rito di fiducia tra il venditore e il compratore. In molti esercizi pubblici la consolidata opinione che lo Stato prenda più di quello che dà mostra invece che l’antipatia generata dalla richiesta è dietro l’angolo.
È questo il paradosso, il vero paradosso che emerge dalle contraddizioni di un piano inclinato verso la povertà dei suoi pensionati al minimo, di quella dei veri poveri, che hanno abbandonato pure la speranza, puntellato della tenuta di famiglie surrogatrici e tratteggiato con i suoi altri punti di forza – e non sono pochi – come un quadro a macchia di leopardo. Mi ricordo tanti anni fa che sondaggi, statistiche, nel loro uso e citazioni erano appannaggio degli uomini colti, degli studiosi, ma al contempo sembravano biciclette d’intralcio degli uomini politici, più che mezzi utili per percorrere più velocemente la comprensione della realtà del proprio Paese.
Dove siamo? Cosa sta accadendo? Dove ci collochiamo? Tre domande che richiedono come risposta un punto nave e anche un buon nostromo. E poi un buon capitano. La navigazione iniziata con la fine della Seconda guerra mondiale e contraddistinta dalla virata intorno alla boa della caduta del Muro di Berlino sembrava essere caratterizzata da chi richiamava l’attenzione sulla fine della Storia. L’inizio del nuovo secolo partiva da un entusiasmo destinato a spegnersi nel primo quindicennio a causa di un mondo che, uscito dalla logica bipolare, sta sperimentando la multipolarità, la geometria variabile di meccanismi di potere e di controllo internazionale arricchita (o impoverita?) dalle asimmetrie dei poteri regionali sostenuti dallo stesso multipolarismo, ma indeboliti dalla globalizzazione.
Quello che finora si è vissuto e si sta vivendo non appare solo come l’olografia della divisione internazionale del lavoro di Davide Ricardo, ma anche come quella che mostra poteri finanziari diversi ma coesistenti e a volte confliggenti intrecciati come sono dalla stessa globalizzazione, e quindi come unica categoria (la stessa descritta da Sapelli) apparentemente vincenti, anche se in verità limitati dagli stessi fondamentalismi. Due entità che sanno di potersi usare reciprocamente.
E l’Italietta? La si chiamava così dai tempi di Giolitti, e anche allora c’era la Libia… Scatto di orgoglio allora per dimostrare che si poteva concorrere alle gare decise da altri. Ma questa di oggi è anche oggi un’Italietta perché è riuscita a crescere, o meglio ad andare avanti su quanto si poteva rendere disponibile a portata di mano e facile da gestire e da redistribuire. Ma non è un Paese cresciuto nelle sue risorse che non necessariamente debbano essere intese sempre e solo a livello di commodities.
È un’Italietta che si avvia a diventare oltremodo vecchietta in senso lato, cumulando a una povertà senile altre povertà. Anagraficamente già siamo il Paese più vecchio d’Europa e il secondo più vecchio del mondo. È un’Italietta soprattutto perché sono pochi coloro che vi credono e che sono posizionati sia in alto, come una buona parte di classe dirigente al lordo delle formali dichiarazioni e dei comportamenti di guarantigia, sia in basso come gli inattivi. E questo accade perché se vi credessero, tutti, saprebbero cos’è, come si fa e a cosa serve un Sistema Paese. E lo saprebbero facendo e non scrivendo soltanto editoriali, ma reclamando gli spazi necessari al cambiamento che non sempre coincidono con gli spazi dei percorsi lungo i quali scorrono i cortei e le manifestazioni.
Un Sistema Paese serve a far crescere un Paese, serve a far sì che le sue componenti concorrano tutte all’obiettivo di costruire futuro: un futuro che sia solido dove la Nazione sia la casa degli Italiani e il luogo d’ospitalità di coloro che oggi fanno come noi tra fine ‘800 e primi del ‘900, quando migrammo fino a costituire una delle maggiori comunità fuori dei confini nazionali. Un luogo dove l’ospitalità sia sana e quindi capace di reprimere ogni altro aspetto pericoloso, degradante e mistificante del fenomeno immigrazione.
Quando Prodi fu nominato per la prima volta Presidente del Consiglio (lo conoscevo dal 1984 e lo incontravo dai tempi in cui da Presidente dell’Iri scendeva le scalette della rampa tra via Liguria e via Veneto, mentre io raggiungevo il Servizio Estero della Bnl) ebbi l’idea di scrivergli un biglietto dicendogli che per il programma di governo (forse è ancora agli atti di palazzo Chigi) lui doveva pensare al Rinascimento. Serviva a cogliere e a sviluppare le intrinseche ricchezze dell’Italia dei mille comuni eppur sempre una e unica. In poche parole, territorio, educazione, ricerca, innovazione: quattro motori per far ripartire il Paese e posizionarlo sulla fascia alta della divisione internazionale del lavoro.
Qualche anno più tardi, complici il ciclo vitale di Samuelson, vicende, peripezie e avventure varie del mondo del lavoro iniziò una riflessione sul lavoro e su come esso potesse evolversi in una logica di Sistema Paese. Se il lettore ha avuto finora pazienza per tutto quello che ho detto, forse avrà pazienza per quello che vorrei dire, come continuazione di questo articolo, per una riforma del lavoro.
(1- continua)