“La politica monetaria da sola non può garantire una crescita duratura ed elevata. Va data rapida attuazione al piano di investimenti per l’Europa”. Sono parole contenute nelle considerazioni finali del governatore Ignazio Visco all’assemblea annuale della Banca d’Italia. Il presidente di via Nazionale è intervenuto anche sul terremoto che sta scuotendo Atene, rimarcando come “le difficoltà delle autorità greche nella definizione e nell’attuazione delle necessarie riforme e l’incertezza sull’esito delle prolungate trattative con le istituzioni europee e con il Fondo monetario internazionale alimentano tensioni gravi, potenzialmente destabilizzanti”. Ne abbiamo parlato con il professor Francesco Forte, ex ministro delle Finanze e per il Coordinamento delle politiche comunitarie.
Quella di Visco è una promozione o una bocciatura delle politiche economiche del nostro governo?
Nella sua valutazione delle politiche del governo, il governatore dimostra di essere molto cauto e quindi non le boccia, né le promuove. Si capisce però bene che le riforme richieste sono ancora da fare. Le due principali carenze riguardano la produttività del lavoro e la Pubblica amministrazione.
Perché il Jobs Act non basta?
In Italia esiste ancora una rigidità determinata dai contratti di lavoro nazionali, le uniche eccezioni in Italia sono i contratti aziendali di Fiat e Lamborghini. Una delle riforme che ancora resta da fare è quindi quella a favore di contratti aziendali diversi a seconda delle aree più o meno sviluppate del Paese. Eppure questo è un tema che non è neanche menzionato nel discorso di Visco.
Perché?
Nelle dichiarazioni prudenti del governatore rilevo una certa paura. Di fronte a un esecutivo un po’ arrogante come quello attuale, c’è la preoccupazione di non criticarlo troppo apertamente.
Come si può tradurre concretamente l’invito di Visco ad attuare una politica degli investimenti?
La politica italiana degli investimenti non c’è, mentre quella europea è soltanto un auspicio per il futuro. Visco sottolinea l’importanza di una politica per gli investimenti e lo sviluppo tecnologico, anche mediante una valorizzazione di università e ricerca. È questa l’unica politica industriale che Visco suggerisce al governo. Il presidente di Bankitalia dice chiaramente che il nostro Paese ha fatto molti progressi, ma che le imprese italiane rispetto a quelle tedesche sono riuscite a inserirsi di meno nei processi di maggiore sviluppo tecnologico.
È un problema che riguarda soltanto le piccole imprese?
No, basti pensare a Telecom ed Enel, che non hanno tecnologie d’avanguardia, e al settore farmaceutico che si ritrova con lo stesso problema. L’appunto di Visco sulla necessità di maggiori investimenti è probabilmente rivolto a tutti i governi italiani degli ultimi 20 anni, che hanno rinunciato ad attuare una qualsiasi politica industriale ignorando che il compito dello Stato è occuparsi dello sviluppo tecnologico.
Ritiene che Visco sia stato abbastanza chiaro su questo punto?
Il governatore avrebbe dovuto dire apertamente che quando il mercato del lavoro è libero e privatizzato le persone qualificate trovano più facilmente un’occupazione, e quindi c’è un incentivo a qualificarsi. L’assunzione dei 100mila precari della scuola del resto lo documenta, in quanto è proprio la rinuncia al criterio del merito.
Il governatore dice anche che una nuova crisi greca potrebbe determinare delle “tensioni gravi”. Con quali effetti per l’Italia?
Visco rimarca che un’eventuale uscita della Grecia dall’euro comporterebbe delle grandi ripercussioni negative sull’Italia. Una delle questioni fondamentali, che il governatore non osa menzionare, è che la Grecia non può uscire perché se ciò avvenisse sarebbero smentite le promesse di Draghi sul fatto che l’euro è un fatto irreversibile. Le parole di Visco però mandano un messaggio all’Ue, e cioè che a trovarsi in difficoltà non sarebbe soltanto la Grecia ma tutto il Sud dell’Europa.
Ritiene che Renzi finora abbia preso il problema abbastanza sul serio?
Finora il governo italiano ha sottovalutato la crisi greca e in generale tutte le varie implicazioni internazionali che potrebbe avere. Il nostro esecutivo si è limitato a frasi generiche sul fatto che l’Europa dovrebbe fare di più, ma non ha mai detto chiaramente che bisogna fare in modo che Atene non esca dall’euro perché per noi sarebbe un disastro. L’impossibilità a recuperare crediti da 40 miliardi di euro sarebbe una stangata per il debito pubblico che non ci possiamo permettere, perché rappresentano quasi il 3% del Pil. A ciò si aggiungerebbero lo spread che sale e l’assalto ai nostri titoli pubblici, un vento spaventoso mentre il nostro governo si gingilla con inezie come tesoretto e Jobs Act.
(Pietro Vernizzi)