Oggi dimentichiamoci della finanza, dello spread, dei giochi di potere sottotraccia. Oggi parliamo di noi, ovvero dell’Italia. E lo facciamo utilizzando come spartito le parole del governatore di Banca d’Italia, Ignazio Visco, il quale ieri ha esortato le banche a contenere ancora i costi e ad ampliare le fonti di ricavo per recuperare redditività: «Per recuperare redditività le banche possono contenere ancora i costi e ampliare le fonti di ricavo. Non pochi intermediari, soprattutto di medie dimensioni, stanno valutando operazioni di concentrazione, anche in risposta alle recenti innovazioni normative», ha sottolineato il numero uno di Palazzo Koch, avvertendo però, nelle sue considerazioni finali, che «i benefici potenziali delle operazioni sono cospicui ma non scontati: richiedono interventi decisi sul piano organizzativo, nella razionalizzazione dei sistemi distributivi, nella gestione dei rischi, nel ricorso alla tecnologia». Insomma, ancora una volta si confondono i piani e si parla del sistema bancario come di un’industria: lo è, ci mancherebbe, ma se il principio che la regola continuerà a restare quello della redditività fine a se stessa non si andrà da nessuna parte. 



Visco, infatti, dovrebbe spiegare come aumentarla questa benedetta redditività: fusioni? Certo. Chiusura di sportelli? Anche. Ma siamo sicuri che, al netto delle sofferenze, questo sarà sufficiente? Non stiamo cercando di svuotare il mare con un secchiello? Il problema, a mio modo di vedere, è solo uno: non si ha il coraggio, Visco in primis, di affrontare la realtà, ovvero il fatto che oggi le banche commerciali sono di fatto banche d’affari, dove la gestione del risparmio e l’erogazione del credito non sono più il core business ma meramente un gravoso obbligo statutario per garantirsi possibilità di raccolta (ovvero, filiali e bancomat). Le banche, ormai, campano sul trading. E, da un certo punto di vista, come dargli torto: cosa ha fatto il governo, inteso come potere di ogni colore, per le banche in questi anni? Nulla più che una deregulation silenziosa e clientelare: io non guardo a cosa fai, se serve una mano te la porgo (vedi la rivalutazione delle quote della stessa Bankitalia), ma tu continui a comprare Btp come se non ci fosse un domani. Ecco cos’è, nella realtà che Visco non potrà mai ammettere, il sistema bancario italiano. 

E la dimostrazione di quanto dico sta nell’affermazione seguente del governatore, riferita alla riforma delle banche popolari varata dal governo: «Faciliterà lo svolgimento efficiente dell’attività di intermediazione creditizia in un mercato reso più competitivo dall’Unione bancaria. La forma cooperativa ha, infatti, limitato il vaglio da parte degli investitori e ha ostacolato la capacità di accedere con tempestività al mercato dei capitali, in alcuni momenti cruciali per fare fronte agli shock esterni». Balle, con tutto il rispetto istituzionale e professionale che ho per Ignazio Visco, persona degnissima. Quella riforma serve alle grandi banche, ovvero agli azionisti di maggioranza di Bankitalia, per cannibalizzare i bocconi più profittevoli degli istituti territoriali a costi di saldo, sfruttando da un lato l’emergenza nei bilanci figlia della recessione e della minore resistenza alle avversità e dall’altro una riforma fatta in fretta e furia rispetto a una materia che, casualmente, è dibattuta da anni ma che di colpo è divenuta improcrastinabile. 

Le cosiddette “banche dell’ultimo miglio” o del territorio, infatti, sono sostanzialmente di due tipi: quelle sane, davvero legate al contesto socio-economico in cui operano, di cui sono linfa vitale, e quelle marce, di fatto stipendifici e nominifici con portafogli degni di un fondo speculativo e bilanci da mani nei capelli. Anche in questo caso, una dinamica che va avanti da anni: perché non si è intervenuti caso per caso con la vigilanza? Carige o Banca Etruria pensate che siano cadute in disgrazia negli ultimi sei mesi e ora la riforma voluta dal governo Renzi, non senza qualche conflitto di interesse, sarà il toccasana? 

Per favore, smettiamola di raccontarci favole: capire se una banca è sana è facilissimo, come ci diceva un banchiere popolare durante un incontro al Meeting di Rimini dell’ormai lontano 2010. Andate a vedere il bilancio e guardate la qualità degli attivi: se fa la banca, va bene. Se fa altro, non fatevi ingannare. A Bankitalia, in tutti questi anni, cosa hanno fatto al riguardo? La nanna, temo, un po’ come la Consob su certe operazioni. Ma siccome il piatto è ricco e goloso, ecco l’implementazione alle banche di credito cooperativo: «Affinché possano continuare a sostenere territori e comunità locali preservando lo spirito mutualistico che le contraddistingue – rilevava ieri Visco – vanno perseguite forme di integrazione basate sull’appartenenza a gruppi bancari. La scarsa diversificazione dei rischi e la difficoltà di irrobustire il patrimonio stanno determinando, in non pochi casi, situazione di crisi». Banca d’Italia valuterà le proposte che verranno dall’associazione di categoria «alla luce della loro capacità di rimuovere gli ostacoli alla capitalizzazione e di risolvere i problemi di questi intermediari. Di certo, il cambiamento non può essere procrastinato». 

Altro giro, altra emergenza: ma è davvero questa la priorità del sistema bancario italiano, l’anomalia delle banche popolari e di credito cooperativo? Andate a chiedere a un piccolo imprenditore della Valtellina o della Valchiavenna se il suo problema è che la banca cui fa riferimento da anni per ottenere finanziamenti affinché la sua azienda cresca e si espanda diventi una società per azioni o il fatto che quella stessa banca, stante la situazione attuale, cominci a ritirare i fidi e tagliare le linee di credito o chiedere maggiori garanzie: l’Italia non vive di azionisti, vive di imprenditori e artigiani. 

Certo, questo è il mondo ideale per chi sogna un’economia alla francese, sussidiata di Stato e basata solo sulle grandi industrie: l’Italia, però, non è questo e cercare di trasformarla forzatamente è folle, oltre che suicida in un momento simile. 

Ma ecco poi un terzo punto che, come vedrete, stranamente ha stretta attinenza al piano politico: ecco il vero problema italiano, la politica dentro le banche. Da parte di Visco, infatti, arriva promozione piena, invece, per il protocollo d’intesa siglato tra il ministero dell’Economia, a cui compete la vigilanza sulle fondazioni, e l’Acri. Il documento muove nella direzione auspicata da Banca d’Italia che da tempo sottolinea la necessità che le fondazioni bancarie svolgano il ruolo di azionista nel rispetto dell’autonomia gestionale delle banche partecipate e diversifichino i propri investimenti. A detta del numero uno di Palazzo Koch, in particolare, il limite di concentrazione dell’investimento in un singolo emittente tutela tanto l’interesse delle fondazioni quanto quello degli intermediari. Inoltre, viene presidiato il rispetto del divieto di controllo delle banche partecipate, anche congiunto o di fatto, e viene migliorata la qualità degli organi, rafforzandone il grado di indipendenza. 

Anche in questo caso, logica aziendalista allo stato puro, scordandosi di fatto qual è il plusvalore delle Fondazioni bancarie, con tutti i loro limiti: sopperire alle carenze dello Stato nei territori, ovvero quella sussidiarietà tanto sbandierata ma di fronte alla quale però, quando si palesa, tutti trovano mille motivi di distinguo. Chi sta per mettere mano ai tagli ai servizi per disabili nel comune di Viareggio? Le Fondazioni bancarie. 

Io capisco che non più tardi di quattro anni fa qualcosa di poco chiaro si mosse tra le Fondazioni bancarie legate a Unicredit dopo l’addio di Alessandro Profumo, tanto da portare la Consob a imporre non solo lo stop alle vendite allo scoperto ma anche al prestito titoli e all’obbligo di richiamo di quelli già prestati a investitori istituzionali, ma bisognerebbe guardare alla radice del problema. Se – e ripeto “se” – Fondazione Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza, Belluno e Ancona, Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, Carimonte Holding e Gruppo Allianz – ovvero l’allora nucleo forte in Unicredit con il 14% – decisero di operare al ribasso per far scendere il valore del titolo per poi presentarsi come “cavaliere bianco”, acquistando una grossa percentuale dell’azionariato (magari pensando a un’Opa ostile) non lo hanno fatto perché portate proprio dalla politica a ragionare e operare unicamente in una logica meramente finanziaria del loro essere? Mi piacerebbe che Visco rispondesse a questa mia domanda. 

Ma andiamo avanti. In generale, per Visco il mercato del credito e la redditività delle banche mostrano segni di miglioramento, ma il lascito della crisi resta ancora pesante sui bilanci degli istituti di credito che hanno dunque difficoltà ad allargare troppo i nuovi prestiti: «A marzo i prestiti alle imprese erano del 2,2% più bassi di un anno prima, con una forte attenuazione della caduta che osserviamo da tre anni». Tuttavia, le condizioni creditizie «restano eterogenee». In particolare, nei settori dell’economia dove le prospettive sono già migliorate, i prestiti alle aziende con condizioni finanziarie equilibrate hanno ricominciato a crescere, mentre nei settori per i quali la ripresa è più lenta, come nelle costruzioni, si registra tuttora una flessione. Sicuri che nelle costruzioni i prestiti arranchino per tutti? A me risulta, da voci di chi opera, che un grande gruppo, i cui banner pubblicitari riempiono ad esempio il bordocampo di San Siro, abbia in questo periodo ampie agevolazioni al credito da parte, per esempio, di Bnl e Monte dei Paschi. Mi sbaglierò, ma non vorrei che Visco, come al solito, ragioni sulle mere percentuali, dimenticando figli e figliastri di questo Paese: se serve un’operazione verità la si faccia ma fino in fondo, a viso aperto. 

Per Visco, poi, anche la qualità del credito e la redditività dei maggiori gruppi bancari è migliorata nel primo trimestre: «Ma l’eredità della recessione pesa ancora sui bilanci delle banche. Alla fine del 2014 la consistenza delle sofferenze è arrivata a sfiorare i 200 miliardi, il 10% del complesso dei crediti; gli altri prestiti deteriorati ammontavano a 150 miliardi, il 7,7% degli impieghi. Prima della crisi, nel 2008, l’incidenza delle partite deteriorate era, nel complesso, del 6%. A fronte di queste esposizioni le banche accantonano risorse cospicue; effettuano svalutazioni che assorbono larga parte del risultato operativo e limitano l’autofinanziamento. Ne deriva un vincolo all’erogazione di nuovi prestiti». D’altronde, se invece di ricapitalizzare davvero si sono comprati Btp con il badile per tenere a bada lo spread al governo amico e non eletto di turno è un po’ difficile riuscire a uscire dalle restrizioni e dalle durezze della crisi, no? Se poi, come in questo Paese, si dà vita a operazioni in cui si compra a 10 ciò che vale 2, salvo poi dover scaricare a bilancio le perdite, è un po’ dura poter erogare credito a un imprenditore, a una famiglia e un giovane con la sua startup, no? Quelli sono buoni solo per i pignoramenti, le telefonate quotidiane per uno scoperto ridicolo, la negazioni di mutui e prestiti, le spese eccessive, l’anatocismo e tante altre simpatiche pratiche i i nostri istituti pongono in essere ogni giorno, casualmente senza che Bankitalia – ovvero la holding delle banche private, non più una banca pubblica che tutela il bene comune dei contribuenti – dica un solo beh. 

Com’è che con l’Euribor a 3 mesi in negativo, le banche caricano ancora spread “interni” del 2,5-3%? Per ricapitalizzare e tornare profittevoli, come chiede il buon Visco? Lasciamo perdere, tutti voi avete un conto corrente e sapete come funzionano le cose, non sono io a dovervelo spiegare. Ma Visco, comunque, ha la ricetta. «L’attivazione di una bad bank aiuterebbe la ripartenza del mercato del credito», tanto che Visco auspica che la discussione sul tema in corso tra autorità italiane ed europee sia «rapida e costruttiva». Lo sviluppo di un mercato secondario dei crediti deteriorati, oggi pressoché inesistente, contribuirebbe a riattivare appieno il finanziamento di famiglie e imprese: «Proponiamo da tempo iniziative in questa direzione, anche con il concorso del settore pubblico; stiamo collaborando con il governo a disegnarle, nel rispetto della disciplina europea sugli aiuto di Stato». 

Sapete già come la penso al riguardo: l’idea di dover aiutare ancora le banche di certo non mi pare la più giusta al mondo, ma occorre essere realisti e non ideologici, quindi si faccia – in fretta – ma in maniera trasparente, se possibile. Detto questo, a salvataggio diretto da parte dello Stato finito, un Paese serio prenderebbe i signori banchieri, li farebbe sedere in una stanza linda e seriosa e direbbe loro: “Carissimi, vi abbiamo salvato le terga per l’ennesima volta, l’ultima. Se da domani non ripartono e di gran carriera gestione del risparmio ed erogazione del credito a condizioni giuste, saltano come tappi di spumante a Capodanno le vostre licenze sulla raccolta. Addio sportelli, addio bancomat, addio conti correnti: andate a fare gli speculatori a pieno titolo e H24 ma con i vostri soldi, questa volta”. Almeno, così dovrebbe andare e andrebbe se il sottoscritto avesse parola al ministero delle Finanze o a Bankitalia, ma siccome ce l’ho solo su queste pagine, tranquilli: faranno la bad bank, ma le banche commerciali continueranno a fare la banche d’investimento, il modello ormai è quello anglosassone, c’è poco da fare. 

La prossima degenerazione? Puntare tutto sul credito al consumo e le carte revolving, la via americana in grande stile. Ma fallirà, ve lo dico da subito. Perché grazie a Dio non siamo l’America, siamo un Paese in cui chi fa impresa ragiona come un padre di famiglia e non un pescecane, ovvero investe 7 se ha 10, perché non si sa mai cosa può accadere: altrove, invece, vige la legge della leva, ho 5 e investo per 500 grazie alla finanza e ai suoi strumenti. D’altronde, se lo fa l’Ue con il meccanismo Juncker, il più grosso derivato della storia europea, perché non dovrebbero farlo le banche che sono soggetti di diritto privato! 

Vi lascio con un grafico che compara le fonti di finanziamento di aziende europee e Usa: come vedete, negli Stati Uniti si usa tantissimo il prestito obbligazionario come fonte di finanziamento degli investimenti, mentre in Europa è il sistema bancario la vera dinamo dell’economia reale. Vogliamo cambiare questa logica? Io non sono d’accordo ma va bene, il progresso secondo alcuni lo impone: ma siamo propri sicuri che una cosa così si fa dalla sera alla mattina? E poi, Enron e le decine di fallimenti in corso nel settore shale statunitense non dovrebbero insegnarci niente sui limiti – e i trucchi – dell’obbligazionario corporate di massa? Emittenti contenti e detentori fregati è la nuova regola della prosperità? 

Pensateci, perché qui il 90% dell’economia è fatto di Pmi, piaccia o meno: e vedo difficile far capire al solito artigiano della Valchiavenna che il prestito obbligazionario high-yield possa cambiare la sua vita e migliorare il suo lavoro, nonostante imponga qualche piccolissimo rischio ontologico. Già, perché piaccia o meno si chiama ancora lavoro. Non business.