I problemi con le fughe dalla realtà, è noto, sono che questa è molto veloce. E prima o poi ti piglia. La crisi greca è prima di tutto questo. Una lunga fuga collettiva iniziata con la campagna elettorale di Syriza e finita il 12 maggio di questo mese quando il governo di Atene, versando una rata da 750 milioni di euro al Fondo monetario internazionale non dalle proprie tasche ma da quelle dello stesso Fondo (il suo capitale sociale detenuto dalla banca centrale ellenica), avrebbe dovuto essere dichiarato “diversamente solvente”, tecnicamente in default. Oggi si tratta alla morte da posizioni più ragionevoli per evitare un esito drammatico che nessuno vuole, ma certo l’originaria velocità di fuga dal reale era impressionante.
Se prometti la fine dell’austerità e la cacciata della troika (i tuoi finanziatori, Fmi, Ue e Bce) seduto sulla dinamite di un debito al 175% del Pil, senza avere accesso ai mercati dei capitali, sei passato dalla tragedia alla commedia in un fiat. Da Eschilo ad Aristofane senza accorgerti. Ma qualunque sia l’epilogo, questa è anche una storia molto istruttiva, degna di Esopo. La storia di un grande bivacco e di una grande illusione.
Entrando nell’euro e grazie a esso, la Grecia è cresciuta a ritmi vertiginosi dal 2000 al 2007 con punte del 6% nel 2003 e di oltre il 4% solo nel 2006. Il reddito pro-capite è passato dai circa 12.000 dollari del 1999 (esordi della moneta comune) ai 30.858 del 2008. Nello stesso anno la disoccupazione era al 7,8%. Una ricchezza letteralmente piovuta dal cielo. Un gigantesco banchetto in cui non si è lesinato un posto a tavola a nessuno. Dai dipendenti pubblici che hanno visto i loro stipendi aumentare del 240% dal 2000 al 2009. Ai pensionati: oltre il 17% di spesa sul Pil con generose pensioni calcolate su base retributiva ed età intorno ai 60 anni prima degli interventi successivi. Pensioni di invalidità (e del settore dell’agricoltura) che nel 2010 fanno pensare a una piaga biblica con 320.000 assegni di questo genere (pari al 14% di tutti i trattamenti erogati nel Paese). Singolari prebende come la pensione di reversibilità alle figlie nubili o divorziate di un ex-dipendente statale. In cui naturalmente la parte del leone al desco apparecchiato dall’Europa l’hanno fatta quelli che già avevano. Si stimano nelle casse svizzere depositi per 60 miliardi di euro riconducibili a cittadini greci. È noto infatti che il Paese è sprovvisto di un’amministrazione fiscale degna di questo nome e che il Pil sommerso è oltre il 30% in più di quello ufficiale (fonti Osce). Naturalmente questi soldi non c’erano. Erano denaro in prestito. Il frutto di imponenti passivi di bilancio in buona parte occultati.
Nel 2004 gli organi greci denunciavano un rapporto deficit/Pil dell’1,2% mentre era al 5,3%. Nel 2009 il nuovo premier George Papandreou (Pasok) annunciava che i conti erano stati truccati dal precedente governo e che per quell’anno il rapporto deficit/Pil si sarebbe attestato intorno all’esorbitante cifra del 12%. In realtà si scoprì che era arrivato al 15,4%, quando il direttore dell’istituto nazionale di statistica greco “confessò” e per questo, da perfetto capro espiatorio, fu incriminato.
È stato come andare a fare la spesa dicendo ai vari negozianti che la Grecia apparteneva a una famiglia ricca, i “Von Euro”, e poi sarebbe passato qualcuno a pagare. Un’economia drogata, anzi, in overdose keynesiana, dove non sono mancati certo gli spacciatori. All’inizio del 2010 si è scoperto che dal 2001 la Grecia avrebbe pagato milioni di dollari a Goldman Sachs e ad altre banche di investimento perché queste mascherassero la situazione contabile così da eludere i controlli europei. Cosicché in questa storia, come nella vita, non è facile tirare delle linee nette tra buoni e cattivi. Certo, suona coerente con una certa sinistra la difesa senza se e senza ma del popolo greco rovinato dai politici che hanno preceduto Siryza, come se al simposio degli anni precedenti vi fossero seduti in pochi mariuoli. E naturalmente rovinato dall’Europa che ha recitato male il ruolo di vittima del raggiro prima e poi ha tagliato nel 2012 il valore nominale del debito privato (quello delle sue vituperate banche) del 53,5% (con un abbuono di circa 205 miliardi), allungato le scadenze da 11 a 30 anni con un servizio sul debito tra il 2% e il 4,3% (per le scadenze al 2042). Il tutto tirando fuori dalle tasche dei suoi contribuenti 130 miliardi di euro quale ulteriore dote del piano di salvataggio.
Per carità, un avanzo primario del 4,5% per il 2016 e a venire, imposto nel piano per il rientro dal debito, contro cui si scagliano Tsipras e Varoufakis, potrebbe ben essere eccessivo ed è certamente pro-ciclico. Tuttavia dalle parti di Francoforte avevano fatto notare che tali performance di bilancio non sono per nulla né eccentriche, né inusuali nei piani di risanamento. In uno dei suoi bollettini mensili, quello del giugno 2011, la Banca centrale europea citava almeno quattro paesi dell’Eurozona che avevano proprio recentemente mantenuto tali obiettivi: il Belgio (1993-2004), l’Italia (1995-2000), l’Irlanda (1988-2000), la Finlandia (1998-2003). Perfino la stessa Grecia dal 1994 al 1999 vantava tali risultati di bilancio.
Il punto sarebbe, in questa chiave, squisitamente politico, essendo difficile mantenere una base di consenso nel tempo per avanzi di bilancio così importanti per ripagare un debito quasi totalmente in mani straniere (a differenza, ad esempio, di quello italiano). È la tesi di Stephen Fidler, in un editoriale del Wall Street Journal del febbraio scorso dall’eloquente e forse divinatorio titolo: “La Grecia può pagare i suoi debiti per intero ma non lo farà”.
Ma non è l’austerity e a ben vedere neanche l’integrale ripagamento del debito ciò che ha reso la trattativa asperrima e lo scoglio su cui ha le migliori chance di naufragare. In fondo, un compromesso di un avanzo al 2,5% sarebbe perorato anche in sede Fmi dagli americani (la Grecia offre l’1,5%) e sarebbe tutt’altro che irragionevole secondo un recente editoriale di Wolfgang Münchau sul Financial Times (del 24 maggio scorso). Ed è ormai un segreto di Pulcinella che il piano varato con il secondo haircut del 2012, che prevedeva una riduzione del rapporto debito/Pil entro il 2020 al 120%, è da tempo considerato carta straccia. Tutti sanno che bisognerà ancora mettere mani ai portafogli con un terzo pacchetto di aiuti passando per un nuova ristrutturazione che già figurava, nero su bianco, nel Fiscal Monitor di ottobre 2013 del Fondo monetario.
L’accordo non è stato sinora possibile (vedremo nei prossimi giorni) a causa di una gigantesca ipocrisia. Una finzione che a mo’ di spada viene brandita dal governo greco. Questa finzione si chiama mandato popolare o se si preferisce legittimazione democratica. In forza di essa il governo di Tsipras rivendica il diritto dovere di decidere le sue politiche microeconomiche e ancora oggi di tracciare linee rosse in merito. Siryza ha vinto le elezioni promettendo di mantenere un mercato del lavoro rigido (di “tutele”) rinforzando la contrattazione collettiva, non toccare l’ancora generoso sistema pensionistico, aumentare il salario minimo al livello precedente i tagli (761 euro), sovvenzionare sino al 30% del reddito le famiglie che non possono sostenere i mutui, non toccare né stipendi né tanto meno il numero dei dipendenti pubblici, rivedere il processo di privatizzazioni e anzi “rinazionalizzare le imprese ex pubbliche strategiche” e perfino gli ospedali privati. E così via in perfetta continuità con la politica “espansiva” dei bei tempi.
Ora, questo esercizio di democrazia è considerato dai creditori equivalere a certezza di rabboccare un catino bucato. Ed è perfino ovvio che, nel momento in cui si profili il terzo programma di aiuti con costi stimati in 35 miliardi per i cittadini europei, siano i finanziatori a dettare le condizioni che, ai loro occhi, ne garantiscono la restituzione nel medio periodo con una sostenibile crescita. Se ciò non facessero essi violerebbero, a loro volta, il proprio mandato democratico quanto agli Stati, e i loro statuti, quanto alle Istituzioni. Anche mettendo per un attimo da parte l’Europa, non si è mai visto nella storia dei salvataggi sovrani del Fmi, un Paese che abbia mantenuto un briciolo di sovranità in queste circostanze. Dunque questa rivendicazione suona già di suo piuttosto ridicola. Ma nasconde di più e ha un valore che oltrepassa i confini greci e parla direttamente a tutti gli Stati della moneta unica.
Quando Mario Draghi, un giorno sì e l’altro pure, denuncia i rischi di implosione dell’euro per le persistenti divergenze strutturali delle sue economie a cui non è corrisposto un adeguato impeto riformista nei singoli paesi, non si limita a denunciare una realtà e a fare da portavoce alla visione dominante tra gli economisti (soprattutto di scuola americana) che ritengono a dir poco precaria la costruzione monetaria continentale. Ben coscio di ciò che è anch’esso largamente acquisito alla dottrina e alla storia economica (che non conosce monete senza Stato) dice di più. Anche le politiche microeconomiche, le politiche del lavoro, le riforme volte alla crescita e alla competitività, oggi presentate e discusse nel Piano nazionale di riforma sottoposto a Bruxelles, non possono essere lasciate alla libertà degli Stati. Occorre anche per esse, al più presto, una governance comune.
Ma se è così, avendo già gli Stati rinunciato alla loro sovranità di bilancio, viviamo in una gigantesca finzione che sarebbe bene svelare ai cittadini europei. L’euro, ammesso lo si voglia naturalmente, per mettere radici nella storia, svuota inesorabilmente la sovranità statale. Brucia tutti i ponti all’Unione che da (peculiare) organizzazione internazionale degli esordi non può che diventare Stato Federale. Ed è solo in questa nuova legittimazione, oggi inesistente, con un Parlamento federale e nuove istituzioni su cui far poggiare queste decisioni propriamente politiche, allo stato imposte secondo dinamiche di pura forza intergovernativa, che si trova l’unica speranza di ridare senso all’esercizio democratico. Quel che è certo è che si può volere o non volere l’Euro, ma se, come i Greci al 71%, lo si desidera nelle proprie tasche, si sappia che sulle proprie pensioni, ad esempio, non potrà decidere Siryza ad Atene. Ma il monito è per tutti.