La Commissione Ue nelle previsioni di primavera ha confermato le stime del governo sui principali indicatori economici dell’Italia. Per Bruxelles il rapporto deficit/Pil sarà del 2,6% nel 2015 e del 2% nel 2016 (per il nostro esecutivo saranno rispettivamente del 2,6% e dell’1,8%). Il Pil crescerà dello 0,6% quest’anno, lo 0,1% in meno di quanto previsto dal governo, e dell’1,4% l’anno prossimo. La disoccupazione, dopo il 12,2% del 2013 e il 12,8% del 2014, quest’anno rimarrà stabile mentre nel 2016 scenderà al 12,6%. Il rapporto debito/Pil quest’anno crescerà al 133%, mentre nel 2016 scenderà al 131,9%, lo stesso livello dell’anno scorso. Nessuna sorpresa quindi, proprio mentre le stime della Commissione Ue per Francia e Spagna, come nel complesso dell’Eurozona, hanno registrato un significativo miglioramento. Abbiamo chiesto un commento a Guido Gentili, editorialista ed ex direttore de Il Sole 24 Ore.



Mentre Francia, Spagna ed Eurozona migliorano rispetto alle attese, l’Italia è ancora una volta ferma. Perché rimaniamo indietro?

Noi restiamo indietro perché proseguiamo lungo un trend che rappresenta ormai un dato storico. L’Italia negli ultimi 20 anni è cresciuta di meno rispetto sia alla media dell’Eurozona che dell’Ue a 28. È un dato che ci portiamo dietro da molto tempo, e questo mette in questione il nostro livello di produttività che è notoriamente più basso. Al momento non siamo ancora riusciti a invertire la tendenza, anzi durante la crisi abbiamo avuto un picco più profondo di tutti gli altri. Ciò è significativo di un’economia che rispetto ai nostri competitor è molto più indietro.



Che cosa manca al nostro Paese dal punto di vista economico?

Lo shock in Italia ancora non c’è stato. Ragioniamo su una ripresa che indica un’inversione di tendenza, il cui merito però sono fattori esterni come la nuova politica monetaria della Bce, il ribasso dei prezzi del petrolio e l’euro debole. La ripresa della domanda interna stenta ancora a materializzarsi, e lo stesso vale anche per quanto riguarda l’occupazione.

Quale scenario ci attende alla luce dei dati di Bruxelles?

Le stime di previsione della Commissione Ue sono un punto di riferimento importante, ma che andrà verificato e rivisto alla luce di quanto accadrà da oggi fino al momento in cui sarà stesa la nuova Legge di stabilità. Quello sarà il punto vero in cui misureremo la nostra performance nel corso di quest’anno. Anche se già a settembre con la nota di aggiornamento avremo un’anteprima significativa di come chiuderà il 2015 e di quali saranno le prospettive per il 2016.



Lei che cosa si aspetta?

Reputo significativo il fatto che lo spread, dopo essersi ridotto scendendo sotto quota 100, ora sia in risalita. Nel 2014 abbiamo risparmiato 2 miliardi sulla spesa per gli interessi sul debito. Certamente avremo un risparmio anche nel 2015, ma se lo spread resterà stabilmente sopra i 100 punti la cifra su cui potremo contare sarà minore. Sono tutte cose con le quali dovremo fare i conti.

 

Dopo la sentenza della Consulta sulle pensioni, come riusciremo a giustificare il nuovo buco di fronte a Bruxelles?

Il negoziato con la Commissione Ue sulla flessibilità è sempre ancorato alla logica dello “zero virgola”, ma rimane pur sempre importante dal punto di vista politico. Al momento non ci sono le condizioni per riaprire procedure di infrazione sul deficit dell’Italia, ma ci aspetta comunque un negoziato difficile. Come lei ha ricordato dovremo infatti andare a spiegare come riempiremo il buco che si è aperto dopo la sentenza della Corte costituzionale sulle pensioni.

 

Che cosa deve fare il governo di qui alla Legge di stabilità di fine anno?

Il governo deve accelerare sulla strada delle privatizzazioni e della spending review. Occorre un’operazione verità per mettere in cantiere una somma significativa, che non sia il solito ritocco per trovare 500 milioni di qui e 800 milioni di là. Bisogna ridurre realmente il peso e il perimetro dello Stato.

 

Il governo riuscirà a trovare questo cambio di passo?

La sentenza della Corte costituzionale sulle pensioni dovrebbe servire appunto a suonare la sveglia al governo, che se rimane nel recinto della politica economica portata avanti finora avrà dei margini di manovra molto limitati. Non dobbiamo dimenticare che Renzi ha promesso di insistere sulla riduzione delle tasse, in particolare su quelle che gravano sul lavoro. Per mantenere le promesse occorrono molte risorse, e l’unica manovra proponibile è una spending review che anche dal punto di vista mediatico riscuoterebbe un grande consenso.

 

(Pietro Vernizzi)