Ve la ricordate la “campagna del Britannia”, cioè quella grande “svendita” di una parte maggioritaria del portafoglio di imprese pubbliche effettuata negli anni Novanta, e precisamente dal ’92 in poi, dai governi Amato, Ciampi, Prodi e D’Alema? Bene: sappiate che quella campagna, in questi giorni, sotto i nostri occhi, sta venendo di fatto vanificata dal suo intento più nobile, che fu quello di liberalizzare i settori industriali e dei servizi dei quali venivano privatizzati i monopolisti statali. 



È questa la vera conseguenza – vera e quindi sottaciuta – dell’alleanza strategica tra Telecom e Fastweb e della possibile ripresa di trattativa tra la stessa Telecom e la Cassa depositi e prestiti per Metroweb. 

La “campagna del Britannia” viene definita così perché si sostanziò in una crociera a bordo del mitico yacht inglese dei nostri vertici politici con un’eletta schiera di banchieri d’affari internazionali ai quali venne mostrato il catalogo dei pezzi statali in vendita. Ai tanti detrattori che l’hanno criticata  negli ultimi quindici anni, la replica è sempre stata che quei governi, costretti a privatizzare per aderire al diktat europeo e ottenere, in cambio, l’ammissione della lira nell’euro dalla prima fase (ahinoi) cercarono, se non altro, di farlo al meglio, cioè di utilizzare le vendite ai privati per liberalizzare i settori, aprendoli alla concorrenza e favorendo quindi la discesa dei prezzi, a tutto vantaggio dei consumatori. Ora, a parte il fatto che le cose non sono andate così perché quella concorrenza ha generato semmai un diffuso rincaro, comunque le liberalizzazioni sono state assai parziali.



In particolare, la telefonia fissa, privatizzata nel ’97, con un introito ridicolo (14 miliardi di euro!), dove tuttora Telecom Italia (la ex-Sip) ha il 60% di quota di mercato e dove, chissà perché, l’Italia è fanalino di coda europeo per qualità di connessione a Internet (banda larga), anziché liberalizzarsi di più, col doppio-colpo di Recchi e Patuano su Fastweb e Metroweb si riarrocca sotto un monopolio privato. In quali mani, peraltro, non si sa con precisione: visto che tra poco il primo azionista di Telecom Italia sarà la francese Vivendi del magnate Bollorè, essendoci però già il colosso dei fondi americani BlackRock nel capitale di Telecom con circa il 10%…



C’è qualche argomento da contrapporre? Tanti! Se funzionasse l’Antitrust, tantissimi… Il business delle reti fisiche delle telecomunicazioni è ancora misurabile su scala nazionale, quindi chiunque si permetta di dire che le proporzioni del monopolio vanno riferite al mercato europeo o parla per ideologia o per ignoranza o per intrallazzo. La verità è che i casi di Terna e di Snam Rete Gas, due reti eccellenti e opportunamente controllate dallo Stato, dimostrano come si può fare efficienza, e investire sulla qualità dei servizi, anche restando dentro i confini nazionali e lavorando in regime di monopolio.

A Telecom Italia sostengono invece da sempre una linea diversa. Dicono di aver bisogno di conservare la proprietà integra ed esclusiva della rete telefonica, il che ricorda tanto la linea sostenuta per anni da Paolo Scaroni quando era presidente dell’Eni per non vendere allo Stato la Snam, salvo poi venderla facendosela pagare assai bene e attualizzando così in un’unica soluzione i proventi attesi nei successivi vent’anni! Perché anche Telecom non fa così?

A pensar male s’indovina. I critici di Telecom dicono che conservando la proprietà della rete fissa, l’ex Sip riesce assai meglio a difendere le sue quote di mercato perché gioca d’anticipo nell’erogare i servizi a valore aggiunto ai clienti rispetto ai suoi concorrenti che hanno, sì, il diritto di utilizzare la stessa rete pagando il canone, ma – per capirci – non ci si muovono mai, dentro, con la stessa comodità del “padrone di casa”. Ecco: la differenza tra l’uso che fa Telecom della sua rete con l’uso che può farne un concorrente è simile a quella che c’è tra il modo sicuro e disinvolto con cui un proprietario usa la sua casa e quello con cui la usa un inquilino in transito… 

Ecco perché oggi la concorrenza sulla telefonia fissa in Italia è così debole, ed ecco perché è così insoddisfacente per estensione e qualità la banda larga, rimessa quasi del tutto all’iniziativa di Telecom, che fino a ieri non aveva quattrini per investirci e potenziarla quando avrebbe da tempo necessitato!

Quel “quasi del tutto” si riferisce appunto alle eccezioni di Metroweb e Fastweb, due società nate nel ’99 dall’iniziativa di Francesco Micheli e Silvio Scaglia e poi cedute, la prima alla Cassa depositi e prestiti e la seconda a Swisscom. Ebbene, oggi Telecom negozia – pare con rinnovate chance di successo – per acquisire da Cdp il controllo di Metroweb e da Swisscom una collaborazione strategica in Fastweb che sembra preludere a sua volta aduna semi-acquisizione. Insomma, Telecom asso pigliatutto. E la concorrenza si freghi.

Ma c’è di più. Cos’è cambiato in Telecom, che sembra morsa dalla tarantola dell’iniziativa, che sembra aver ritrovato una capacità d’investimento che eravamo abituati a considerare limitatissima, che è sempre sui giornali con annunci positivi?

Beh, sono cambiate due cose fondamentali. Innanzitutto, Mediobanca non conta più niente all’interno dell’azienda, dopo averne per sette anni condizionato le strategie: e si sa che Mediobanca ha spesso sortito un effetto paralizzante sulle sue partecipate, da Generali a Impregilo, da Rcs ad, appunto, Telecom, riconducendone forzatamente le strategie a interessi e disegni generali sempre costrittivi e mai appropriati. E con Mediobanca, si è sfilata Telefonica che, grazie alla stessa Mediobanca, pur essendo acerrima rivale di Telecom si era ritrovata nel ruolo di suo socio-guida, che aveva cinicamente esercitato tarpandole in tutti i modi le ali. Tra avere i padroni sbagliati come prima, e non averne affatto come oggi, è molto meglio oggi.

La seconda cosa positiva per Telecom è l’arrivo al vertice di Giuseppe Recchi. Non è un genio universale, e non è un mostro di strategia. Però non è ricattabile, ha energia, e molta voglia di affermarsi brillantemente dopo la fase grigia di una presidenza senza poteri all’Eni. Ma questo non basta ancora a spiegare come, oltre alla personale visibilità di Recchi, sia oggettivamente Telecom a essere tornata all’iniziativa, a star migliorando i conti e a essere di nuovo a centro campo.

Basta la spiegazione numero 1, quella cioè di non avere più un padrone inadeguato, a motivare la rinascita? Nossignore. Né bastano a motivarla le personali capacità di Recchi. La verità è dunque probabilmente diversa, e cioè che Recchi garantisce una platea di interlocutori americani – con cui è in rapporti storicamente ottimali – che guardano a Telecom come a un’appetitosa opportunità. E che più presto che tardi se la compreranno. Più presto che tardi, perché se no, di questo passo, l’azienda si valorizzerà in Borsa troppo per i loro gusti.

Speriamo che Andrea Guerra e Yoram Gutgeld – i due consiglieri economici principali del premier – stiano spiegando queste cose a Renzi, tanto che lui sappia cosa si sta profilando, ovvero la vendita agli investitori stranieri di un gruppo che ha la parola “Italia” nella ragione sociale e che per questo appena tre anni fa non si volle vendere ai cinesi di Hutchison Whampoa che voleva comprarselo. Un gruppo che controlla sempre più monopolisticamente se si attira nella sua orbita Fastweb e Metroweb, la rete “più strategica” del Paese. Ma chi conosce le cose dall’interno sa che Guerra e Gutgeld hanno molti amici americani.