Se siete ancora scossi per l’anemico dato del Pil Usa del primo trimestre, un misero +0,2%, preparatevi perché il peggio deve ancora venire. Come ci mostra il primo grafico a fondo pagina, la prima revisione della crescita statunitense operata dal Bea ha visto il livello passare addirittura in negativo al -0,7%, ovvero in piena recessione. E c’è di più, visto che il dato iniziale è stato reso possibile dall’aumento record delle scorte di magazzino, le quali da sole hanno aggiunto qualcosa come 106 miliardi di crescita nominale: se soltanto il loro livello fosse cresciuto in maniera normale o rimasto piatto, oggi parleremmo di un Pil Usa per i primi tre mesi di quest’anno al -3%! Ma tranquilli, negli Stati Uniti sono già corsi ai ripari, visto che proprio il Bureau of Economic Analysis (Bea) ha comunicato che dal prossimo 30 giugno, data in cui è prevista la pubblicazione del dato preliminare del Pil per il secondo trimestre, cambierà la metodologia di calcolo del Prodotto interno lordo, visto che alcune variabili rendono sempre i dati del primo trimestre di ogni anno peggiore dei rimanenti tre.



Per giustificare questa anomalia negli Usa hanno inventato la “stagionalità residuale” e lo scopo del Bea oggi è quello di minimizzare il fenomeno, ovvero di truccare i dati alla fonte, evitando le solite, sgradevoli revisioni al ribasso che ormai stanno diventando un mantra. E guarda caso, quale sarà una delle categorie che verrà sottoposta a revisione? Le scorte di magazzino e alcune loro sotto-componenti.



Ma per quanto si imiti Fausto Tonna, la realtà è testarda e venerdì scorso gli Usa hanno patito una giornata da tragedia a livello di dati macro. Dopo che l’indice Ism di Milwaukee è crollato ai minimi da 15 mesi, anche il Pmi di Chicago ha postato uno scoraggiante 46.2 contro le attese di 53.0 e dopo il 52.3 di aprile: insomma, a livello di nuovi ordinativi, produzione e occupazione siamo tornati al periodo della crisi Lehman. Ma non basta, dopo il crollo dell’indice della fiducia Gallup e quello del Consumer Comfort di Bloomberg, venerdì anche l’Umich Consumer Sentiment si è schiantato a 90.7, un livello toccato l’ultima volta nel novembre 2014. Il sottoindice della “Speranza” è sceso da 88.8 a 84.2, mentre quello “Current conditions” è sceso da 107 a 100.8, il peggior calo dall’estate del 2011, quando di verificò il downgrade del debito Usa.



Ancora non vi basta? Tranquilli, c’è dell’altro, come ci mostra il secondo grafico. Il margin debt alla Borsa di New York è infatti cresciuto di 30 miliardi nell’ultimo mese e ha toccato un nuovo record a quota 507 miliardi di dollari, quasi il 50% più alto del picco raggiunto nell’ottobre 2007, prima dell’esplosione della crisi subprime. Insomma, sempre più investitori – soprattutto retail – prendono a prestito denaro per comprare titoli, facendo aumentare a dismisura il rischio di margin call di massa se una correzione dei corsi dovesse incorrere, visto che l’investor net worth, ovvero i soldi reali di chi investe senza doverli prendere a prestito, è ai minimi storici di 227 miliardi di dollari. Ma il terzo grafico ci dimostra come nessuno tema il rischio di crolli, visto che l’indicatore di Deutsche Bank rispetto al sentiment di chi sta investendo sta salendo ancora e si avvicina al livello di “mania” per il ciclo di mercato.

Cosa significa? Che si prezza già il Qe4 ella Fed, altro che panico per il rialzo del tassi. Ma pensate che solo l’America sia nei guai? Fate male, perché il Giappone è un fiero concorrente. Le spese dei cittadini nipponici, infatti, si sono inaspettatamente contratte nel mese di aprile su base annualizzata, scendendo dell’1,3% contro le attese di un +3,1% degli analisti, visto che nell’aprile del 2014 si registrò l’aumento dell’Iva. Di più, su base mensile la spesa si è contratta addirittura del 5,5%! Insomma, nonostante il tasso di disoccupazione sia ai minimi da 18 anni, i giapponesi non spendono soldi o lo fanno con un ritmo molto più basso di quello atteso dalle autorità monetarie.

Ma anche nel Sol Levante c’è la sindrome Fed, quindi ecco pronte le giustificazioni: il tempo particolarmente piovoso ha fatto in modo che la gente uscisse molto meno spesso a cena fuori, visto anche l’aumento dei consumi di cibo e beni durevoli. Di più, lo yen debole e le tariffe troppo alte degli hotel stanno scoraggiando i cittadini dal viaggiare. Sarà, però molto aziende hanno presentato profitti record, i prezzi dei titoli azionari sono alle stelle, i salari stanno salendo, ma la gente non spende, soprattutto la mitologica classe media: come mai? Timore di quanto potrà accadere, perché dopo aver sconnesso completamente il mercato obbligazionario più grande del mondo, la Bank of Japan sta di fatto comprando equities come fosse un fondo speculativo, acquistando Etf ogni qualvolta il Nikkei sembra perdere smalto.

Il problema è che così facendo, con le quotazioni dei titoli sempre più alte, anche il portafoglio equity della Banca centrale deve adattarsi in espansione, altrimenti l’effetto placebo finisce e le correzioni cominciano a incorrere. Tanto più che anche l’altro obiettivo dichiarato dell’Abenomics, ovvero stimolare l’inflazione in area 2%, sta arrancando, visto che in aprile l’indice dei prezzi al consumo core (quello che include i prodotti petroliferi ma non il cibo fresco) è salito solo dello 0,3%, in media con le attese del mercato di +0,2% ma ben al di sotto del target fissato dalla Banca centrale. Tanto più che lo yen ai minimi record sul dollaro va a impattare sui prezzi delle importazioni, di fatto operando un offset sui benefici correlati all’abbassamento della bolletta energetica.

Il problema, poi, è che i giapponesi stanno prendendo la brutta abitudine statunitense di truccare i dati, come ci mostra il primo grafico a fondo pagina. Il quale smonta il miracoloso dato che vede oggi il tasso di disoccupazione nipponico al 3,3%, il livello più basso dall’aprile 1997. Paradossalmente, infatti, se il numero di disoccupati in Giappone è calato di altre 20mila unità, il numero di chi ha un impiego è calato di 280mila unità! E come si da allora ad aver un tasso di disoccupazione più basso? Semplice, si fa in modo che il dipartimento statistico del ministero del Lavoro schianti il numero della forza lavoro, scesa ad aprile di 340mila unità dopo il -190mila di marzo e -20mila di febbraio, abbassando così il tasso di disoccupazione.

 

E l’Europa, vuole forse essere da meno? Ma ci mancherebbe altro, ecco quindi che in Grecia i depositi bancari sono calati di altri 5 miliardi portando il totale a 133,7 miliardi, il livello più basso dal settembre 2004. Le banche elleniche hanno perso qualcosa come 32 miliardi in depositi dallo scorso novembre e stanno perdendo altri 167 milioni in media ogni giorno, ma, per loro fortuna e come ci mostra questo grafico, possono contare sui fondi Ela della Bce per restare solvibili. Cosa succederà però se il 5 giugno il governo greco non pagherà il suo debito verso il Fmi? L’Eurotower taglierà o abbasserà le disponibilità Ela per le banche elleniche, di fatto condannandole al default nell’arco di mezza giornata?

Mancano pochi giorni e lo sapremo. In compenso, venerdì scorso Eurostat ci ha fatto scoprire dell’altro, questa volta senza necessità di verifiche: nonostante miliardi e miliardi di aiuti (di fatto usciti dalla Germania e poi rientrati dopo una partita di giro sotto forma di pagamenti alla Bce), l’economia greca nel quarto trimestre del 2014 si è contratta dello 0,2%. Cosa significa? Che la Grecia è di nuovo ufficialmente in recessione!