Alla riunione dei capi di Stato e di governo del 25 e 26 giugno prossimo sarà presentata una bozza di riforma europea in due tempi, fino al 2017 e dal 2017 al 2019. La prima fase sarà basata su maggiori controlli sulle riforme e sui conti pubblici dei Paesi aderenti, nonché sul rafforzamento della moneta unica. Mentre dal 2017 si procederà con la creazione di meccanismi di solidarietà per il superamento degli squilibri economici tra i singoli Paesi e con la creazione di un Fondo Monetario Europeo. La bozza di riforma è frutto del lavoro del presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, del governatore della Bce, Mario Draghi, nonché dei capi dell’Eurogruppo, Jeroem Dijsselbloem, e del Consiglio Ue, Donald Tusk. Abbiamo chiesto un commento a Mario Deaglio, professore di Economia internazionale all’Università degli Studi di Torino.



Quella proposta dai quattro presidenti è una riforma che può portare l’Europa alla crescita?

Di certo è un ricostituente anche se da solo non basta. Se mi chiede se è in grado da sola di portare l’Europa alla crescita, sarei per un mezzo no. Se invece mi domanda se è un aiuto alla crescita che viene favorita in tanti altri modi diversi, sarei per un mezzo sì.



E’ comunque una bozza che va nella direzione giusta?

Sostanzialmente sì, anche se bisogna vedere se poi sarà efficace nei tempi e nei modi. Gli Stati Uniti hanno iniziato a funzionare come federazione dopo la riforma fiscale di Alexander Hamilton, segretario al Tesoro dal 1789 al 1795. Quest’ultimo stabilì due livelli di tassazione, uno per l’Unione e uno per i singoli Stati. Ancora oggi l’equivalente dell’Irpef va a Washington, quello dell’Iva invece agli Stati. Questo aspetto nella bozza di riforma Ue è presente vagamente ma non è esplicitato con chiarezza. Si dice che l’Unione deve avere un proprio bilancio, e quindi delle proprie entrate, ma non si va più in là.



L’anello mancante è l’unione fiscale, bloccata per l’opposizione della Germania?

Questo è uno dei problemi, e l’opposizione non viene solo dalla Germania ma da parte di tutti i governi nazionali che non vogliono vedersi portare via una fetta importante di entrate. L’unione fiscale ridurrebbe infatti i governi nazionali in governi regionali.

L’unione fiscale sarebbe un passo avanti positivo?

Sì, in quanto sono convinto del fatto che l’Europa debba diventare un Paese solo. Finché non si fa l’unione fiscale saremo tanti Paesi diversi che poi litigano o vanno d’accordo a seconda dei casi. Chi però non condivide le mie premesse filo-europeiste, ed è totalmente giustificato a farlo, si opporrà strenuamente all’attuazione dell’unione fiscale.

 

Questa riforma è la fine della sovranità nazionale?

Noi abbiamo già rinunciato a molti aspetti di sovranità nazionale per entrare nell’Ue. Per esempio i dazi doganali sono decisi da Bruxelles, e lo stesso vale per i controlli sulle banche. La vera questione da capire è se vogliamo realizzare un progetto politico oppure no. Se lo vogliamo è indispensabile cedere sovranità. Se invece vogliamo dei meccanismi che facilitino gli scambi e la crescita in modo indiretto, allora è giusto limitarsi all’Europa degli Stati. In questo modo nessuno perde sovranità e in caso di divergenze ciascuno va per conto proprio. E’ un dilemma che ciascuno di noi si dovrebbe porre, chiedendosi se vogliamo essere innanzitutto italiani con una vernice di europeismo o innanzitutto europei sia pure con un vestito all’italiana.

 

Per Renzi grazie all’Italia si è convinta la Merkel a rinunciare all’austerità. Questa bozza lo smentisce?

Non necessariamente, perché la riforma è un’arma a doppio taglio che può essere usata sia su un fronte di austerità sia su un fronte di crescita. Nulla vieta a un futuro governo europeo con sede a Bruxelles di consentire agli Stati nazionali di sforare i parametri secondo livelli precedentemente definiti. Si noti che gli americani fanno così, in quanto agli Stati poveri si garantiscono sgravi sulle imposte che vanno a Washington.

 

(Pietro Vernizzi)