La Turchia, dopo gli anni del “sultanato” del Premier e successivamente Presidente Erdogan, conosce per la prima volta una fase di forte incertezza politica. Questo è il risultato delle elezioni di domenica scorsa, che hanno visto il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) perdere la maggioranza assoluta in Parlamento detenuta dal 2002. Il risultato, per essere onesti, non è stato pessimo per l’AKP, dato che è stato votato da quasi il 41% della popolazione.
Tuttavia questa percentuale è stata molto inferiore al 52% ricevuto da Erdogan per la sua prima elezione a Presidente della Repubblica dello scorso agosto, ma superiore al 34% ricevuto nel 2002, quando ottenne lo stesso la maggioranza assoluta. La sconfitta del Presidente deriva dal metodo di assegnazione dei seggi. La soglia di sbarramento è molto elevata, pari al 10%, e storicamente i partiti filo-curdi (forte minoranza nella parte orientale della Turchia) non erano mai riusciti ad organizzarsi per entrare in Parlamento. Questa volta, l’HDP, guidata dal giovane leader carismatico Demirtas, ha raggiunto quasi il 13% e circa 80 seggi in Parlamento: il numero necessario per togliere la maggioranza assoluta a Erdogan e per relegarlo a una vittoria a metà.
Il problema turco ora, come anche sottolineato dal crollo della lira turca e della Borsa di Istanbul, è l’incertezza politica ed economica. Il partito al potere dal 2002, che ha avuto indubbiamente l’appoggio dei mercati, non può più governare da solo, dato che detiene 258 dei 550 dei seggi del Parlamento di Ankara. Le opposizioni difficilmente potranno allearsi per raggiungere una maggioranza alternativa e quindi l’AKP dovrà trovare degli alleati continuamente.
L’incertezza politica si accompagna a una sempre maggiore incertezza economica. Il deficit delle partite correnti continua ad essere negativo, pari al 4,5% del Pil nel 2015, mentre le stime per la crescita economica sono di solo il 3%, un livello molto inferiore rispetto agli anni scorsi. Inoltre, il settore immobiliare, che ha conosciuto un forte boom negli scorsi anni, potrebbe sgonfiarsi, con un forte impatto sull’economia reale.
Per tale motivo la lira continua a svalutarsi sia nei confronti del dollaro che dell’euro, ed è arrivata lunedì, subito dopo le elezioni a 3,10 lire per euro. Questo valore è molto vicino a quelli raggiunti nel periodo delle proteste di Gezi Park del maggio del 2013. L’incertezza non fa bene a un Paese in via di sviluppo, ma è chiaro che il voto è sempre più scomposto.
Erdogan rimane l’unico leader a sapere catturare il voto di quattro turchi su dieci, ma le opposizioni non sono capaci di organizzarsi. Il partito CHP, l’opposizione laica e repubblicana, figlia di Ataturk, continua a soffrire e raggiungere solo un quarto dei voti, mentre i nazionalisti e i filo-curdi rimangono ancora forze relativamente piccole (meno del 15% dei voti).
Il Paese è frammentato e questa è la maggiore colpa di Erdogan che negli ultimi anni ha utilizzato una logica escludente. Una strategia che non paga più, poiché ora si ritrova a fare degli accordi per arrivare a un Governo con un minimo di stabilità. Un’incertezza economica e politica che non fa bene a nessuno, per un Paese sempre più al centro dell’attenzione mondiale, vista la sua posizione strategica in Medio Oriente.