Allarme rosso (in tutti i sensi): le aziende cinesi stanno abbandonando il mercato azionario Usa a un tasso mai registrato prima. Dodici di loro, trattate sul mercato statunitense, hanno ricevuto offerte che quest’anno hanno totalizzato i 10,6 miliari di dollari per operare il delisting delle loro azioni, stando a dati di Bloomberg. La Renren Inc. – un sito di social networking del valore di 2,2 miliardi di dollari – e la 21 Vianet Group, un operatore di data center di Pechino, mercoledì scorso sono state le ultime due a confermare di aver ricevuto offerte in tal senso. 



Il motivo? È tutto nel primo grafico a fondo pagina: le aziende cinesi lasciano gli Usa per riquotarsi a casa propria, dove il mercato in bolla completa sta garantendo i guadagni maggiori al mondo e dove anche i regolatori sono meno “puntigliosi” su certi dettagli del business. La Focus Media Holding, azienda pubblicitaria che ha operato il de-listing da New York nel 2013, il 3 giugno ha annunciato la quotazione sullo Shenzhen Composite attraverso un “reverse merger”. Di converso, soltanto tre aziende cinesi hanno operato Ipo negli Usa da inizio anno, raccogliendo in totale solo 163 milioni di dollari, mentre quindici compagnie – capitanate da Alibaba Group – nel solo 2014 hanno racimolato attraverso il listing a New York qualcosa come 29,5 miliardi di dollari. 



Insomma, la Cina è la nuova America. Basta riguardare il grafico di prima: l’indice Bloomberg China-Us Equity negli ultimi dodici mesi ha guadagnato il 32%, mentre lo Shanghai Composite il 149%, la peggior underperformance degli ultimi 5 anni. E anche il volume delle offerte per il de-listing ha raggiunto e superato il record precedente di 8,1 miliardi di dollari del 2012, quando 19 compagnie abbandonarono Wall Street. 

Stando a un’analisi di Credit Suisse, molte altre aziende sono destinate a seguire l’esempio: New Oriental Education & Technology Group, compagnia di tutoring da 4 miliardi di dollari di valutazione e il sito di recruiting di Shanghai, 51Job Inc, sono tra i principali candidati per ricevere nuove offerte private, basate soprattutto su fattori che includono valutazione e flottante libero. Ma se ne vanno solo per gettarsi nel grande casinò rialzista d’Oriente o c’è dell’altro? Lo Standard&Poor’s 500, ad esempio, sta dicendoci qualcosa? Più di un indicatore, infatti, sta segnalando guai in vista per l’indice newyorchese, a partire da quello visualizzato nel secondo grafico, il quale ci mostra la misurazione delle aziende che stanno a tenendo a galla il mercato azionario statunitense proprio in queste ore in cui l’S&P’s 500 sembra sul punto di bruciare tutti i guadagni da inizio anno. 



È del 59% la percentuale di titoli che alla fine della scorsa settimana hanno chiuso al di sopra del loro movimento a 200 giorni, la più bassa da otto mesi a questa parte, stando a dati di Bloomberg. Per molti investitori, che hanno dato vita a portafogli hedge sul breve termine, il livello da tenere d’occhio è quello fissato a 2040 punti, toccato l’ultima volta lo scorso marzo. Tanto più che con l’indicatore di volatilità Vix al 15.14, sembra che i timori non siano così diffusi, tenendo anche conto del fatto che se la preoccupazione per un aumento dei tassi va a impattare negativamente su alcuni titoli e comparti, fa aumentare l’appeal di altri, come quello bancario, salito del 16% da gennaio.

Ma al netto di questi dati un po’ “choppy”, un altro indicatore che sembra promettere guai è il cosiddetto Zod (Zone of Death), coniato dall’ecomomista Robert Dieli e basato sul cambiamento percentuale anno su anno sempre dello Standard&Poor’s 500. Quando Dieli prese in considerazione i grafici sul lungo termine, notò che quando passava attraverso il livello del 10% in discesa, l’indice tendeva ad accelerare il ribasso fino a che non arrivava a -10%. Quindi, quella tra +10% e -10% è la cosiddetta “Zone of Death”, la zona della morte, questo perché una volta entrati in quell’area è molto probabile che il mercato rialzista sia morto. 

Il primo grafico a fondo pagina ci mostra l’evoluzione di quest’area di rischio dal 1955 in poi. Vedrete come la linea del grafico ha la tendenza a rimbalzare una volta entrata in quella zona, creando falsi segnali che per molti analisti e osservatori rendono la Zod uno strumento di previsione non preciso e affidabile. Utilizzando però quota 5% come soglia, vediamo che l’affidabilità del segnale migliora: un volta penetrato il livello 10% si alza una bandiera gialla, ma superato il 5% la bandiera diventa rossa e i falsi segnali calano molto di presenza. Oggi la linea è a 7,85%. Questo significa che in base a questo indicatore, c’è già una bandiera gialla che sventola. 

Ma a questo punto subentrano altri fattori: ovvero, il trend primario che è comunque ancora rialzista e il fatto che, a oggi, la Fed agisce ancora in modalità di supporto risk-on-trade. Insomma, paradossalmente un segnale positivo per chi è nell’equity market, ma ora che i livelli di supporto sono messi alla prova e la Fed potrebbe alzare i tassi a settembre, in ossequio al dato sull’occupazione non agricola migliore del previsto, cosa dobbiamo davvero attenderci? 

Il secondo grafico ci mostra la situazione Zod oggi. Come vedete, la linea si è mossa dentro e fuori dalla Zod fin dall’inizio del 2015 e oggi è in area di bandiera gialla, quindi paradossalmente l’unico modo per evitare di precipitare nella zona di pericolo della bandiera rossa (ovvero, valicare la soglia del 5%) è registrare una serie di nuovi massimi del mercato. 

Possibile? In un mondo come quello attuale, certamente sì e ce lo dimostrano plasticamente gli ultimi grafici. I quali ci mostrano la comparazione tra lo Shanghai Composite cinese, a detta di tutti (me compreso) già totalmente in bolla speculativa, e un titolo azionario quotato al Nasdaq di New York. Il primo grafico ci mostra l’andamento da inizio anno, il secondo l’andamento da inizio 2013, con i colori dei tratti che identificano l’uno e l’altro. Bene, il titolo che nel secondo grafico mostra un’impennata folle, ma che per gli analisti mainstream non è affatto in bolla è quello di Netflix. 

 

 

 

E cos’è Netflix, per chi non lo sa? Vista la performance, certamente un’azienda farmaceutica che ha trovato un vaccino contro il cancro oppure una casa automobilistica che ha scoperto un metodo per far camminare le auto con l’acqua del rubinetto. No, questa è la definizione che ne dà Wikipedia, per usare un giudizio terzo. «Netflix è una società statunitense nata nel 1997, che offre un servizio di noleggio di DVD e videogiochi via Internet e, dal 2008, anche un servizio di streaming online on demand, accessibile tramite un apposito abbonamento. La spedizione dei dischi è effettuata tramite il servizio postale, che viene utilizzato dai clienti anche per la restituzione. Il sottoscrittore dell’abbonamento può tenere quanto vuole i DVD che riceve: esiste un limite massimo al numero di DVD noleggiabili contemporaneamente, determinato dal tipo di abbonamento sottoscritto. Alla ricezione del plico contenente un disco Netflix invia il primo contenuto disponibile tra quelli già richiesti dall’abbonato. Dal 2010, con l’espansione dell’offerta in altri paesi, in particolare nel Sud America e in Europa, e l’avvio di produzioni originali, Netflix ha registrato un rapido incremento di popolarità, superando nel 2014 i 50 milioni di abbonati, più di 35 dei quali negli Stati Uniti». Insomma, film e videogiochi in streaming e on demand, visto che ormai i DVD sono oggetti da museo: vi pare normale od oltre al mercato cinese anche quello Usa è già in bolla, drogato da buybacks e multipli di utile per azione a 12 mesi da mani nei capelli? 

Attenti quindi a quanto vi ho spiegato prima: la Zod potrà anche essere poco vincolante e precisa, ma Wall Street è quasi fuori controllo in caso di shock. E Fed e Grecia incombono. 

 

P.S.: Come ci dimostra questo grafico, non c’è affatto da preoccuparsi per un contagio sull’obbligazionario sovrano in caso di default della Grecia. Cosa volete che siano 25-30 punti base di spread in due giorni (giovedì e venerdì) per Italia, Spagna e Portogallo: tutta salute! In compenso, ieri pomeriggio alle 16, il governatore della Banca centrale di Macedonia, Dimitar Bogov, con un atto unilaterale d’urgenza ha stabilito che le banche greche sul territorio macedone – diffusissime – non possono più emettere cash come atto di tutela preventiva dei contribuenti del Paese in caso di Grexit. Che dite, aprono le banche in Grecia lunedì? E la Borsa? La “cura Cipro” sta arrivando e non da sola.