E’ in libreria “Popolari addio? – La riforma di Renzi e il futuro delle banche di territorio” (Guerini & Associati). I due autori – Franco Debenedetti e Gianfranco Fabi si confrontano – con saggi programmaticamente dialettici, preceduti da una conversazione fra Lodovico Festa e Giulio Sapelli. Il volume viene presentato a Milano lunedì 15 giugno alle 18 presso il Centro Studi Grande Milano (Camera di Commercio, Via Meravigli 9). Partecipano, fra gli altri: Ugo Finetti, vicepresidente Csgm; Giulio Sapelli e Carlo Fratta Pasini, presidente del Banco Popolare. Pubblichiamo di seguito l’inizio del saggio di Fabi: “Popolari: un modello da difendere”.



Se fosse un libro giallo ci sarebbero tutti gli ingredienti, tranne uno, il vero movente. C’è infatti la vittima: le grandi banche popolari. C’è il colpevole: il Governo. C’è l’arma del delitto: il decreto legge del 20 gennaio. Ci sono i complici: il Parlamento che ha approvato la conversione in legge con solo piccole modifiche. C’è il mandante: la Banca d’Italia e, in secondo piano, la Banca centrale europea. Ci sono le motivazioni apparenti: la ricerca di una maggiore solidità del sistema bancario e di maggior credito a famiglie e imprese. Manca quindi, almeno per ora, il vero movente. Per ora. Perché nei prossimi mesi si capirà con chiarezza chi era pronto da tempo e uscirà allo scoperto per sfruttare questo provvedimento permettendogli di conquistare posizioni di potere e di vantaggio economico.



Parliamo del decreto legge recante misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti approvato dal Governo il 20 gennaio, presentato alla Camera dei deputati il 24 gennaio, approvato in prima lettura il 12 marzo e convertito definitivamente in legge dal Senato, dopo che il Governo aveva posto questione di fiducia il 24 marzo, giusto sul filo di lana prima della decadenza. Da sottolineare che nella fretta dell’approvazione il Governo si era probabilmente dimenticato della necessaria consultazione della Banca centrale europea e ha inviato il testo, ottenendo peraltro poi un completo via libera sui contenuti, solo un mese dopo, esattamente il 20 febbraio.



Il decreto che impone alle banche popolari di maggiori dimensioni di trasformarsi in società per azioni entro 18 mesi è comunque apparso fin dall’inizio segnato da un vizio di forma: è infatti difficile intravedere le condizioni straordinarie di necessità e urgenza, come richiede la Costituzione, per un provvedimento varato senza che vi fosse alcun elemento di novità, e quindi di straordinarietà, sullo scenario finanziario. Sulla necessità poi si può ovviamente discutere, sull’urgenza un po’ meno perché comunque il decreto fissa un termine di 18 mesi entro i quali può anche non succedere nulla. Ma la riforma delle banche popolari non appare solo ingiustificata nel metodo, appare anche: 1) autoritaria nella forma, con un iter parlamentare concluso in tempo solo grazie al voto di fiducia: 2) illiberale nei contenuti, perché viola l’autonomia di importanti soggetti economici; 3) ideologica nella sua filosofia, ispirata a uno statalismo che non riconosce il valore della sussidiarietà; 4) velleitaria negli obiettivi, perché punta a uno sviluppo del credito per istituti che hanno già fatto il loro dovere molto meglio delle altre categorie; 5) rischiosa nell’attuazione, perché lascia campo aperto all’arrivo dei fondi speculativi e di interessi estranei alle economie locali; 6) isolata nella strategia, perché nessun altro paese europeo ha imposto trasformazioni simili e anzi i grandi paesi, come Germania e Francia, pur se in forme diverse, hanno difeso il carattere e rispettato l’autonomia delle banche popolari.

Intendiamoci. Non c’è nulla di male, anzi in qualche caso può essere anche positivo, il fatto che grandi banche nate e cresciute come popolari si trasformino volontariamente in società per azioni, magari con qualche vincolo statutario per mantenere particolari forme di rappresentanza. Quello che stona nel provvedimento voluto dal Governo è l’imposizione dall’alto, l’introduzione del tutto arbitraria di una barriera di 8 miliardi negli attivi, l’abolizione di vincoli basati sulla sana prudenza come quello di nominare gli amministratori tra i soci cooperatori. In pratica la volontà di uniformare tutte le grandi banche allo stesso modello giuridico fondato sul capitale. Va dato atto che le commissioni parlamentari, pur nel tempo molto ristretto, hanno svolto un ampio ruolo di consultazione delle parti interessate, consultazioni peraltro vanificate al Senato dall’imposizione del voto di fiducia.

Qualche piccola modifica è stata peraltro apportata al decreto nel corso della discussione alla Camera: in particolare, data la sollecitazione a non aprire del tutto e senza limiti le società al mercato, è stato previsto che gli statuti delle nuove società per azioni possano «prevedere che fino al termine indicato nello statuto, in ogni caso non successivo a ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, nessun soggetto avente diritto al voto può esercitarlo, ad alcun titolo, per un quantitativo di azioni superiore al 5 per cento del capitale sociale avente diritto al voto». Una modifica che appare tuttavia a doppio taglio. In primo luogo perché vi sono già ora statuti di banche SpA, è il caso di Unicredit, che pongono un limite al 5% dei diritti di voto. In secondo luogo perché fissare un limite di 24 mesi vuol dire concretamente vietare che questo avvenga dopo questo periodo. In pratica ancora una volta si è fatta passare per una concessione quello che invece è un vincolo in più.