C’è un futuro per l’Europa oltre la Grecia? La domanda suona legittima mentre, qua e là, esplodono gli egoismi nazionali (sull’immigrazione, in particolare) e non si intravvede un’iniziativa politica energica, dal Medio Oriente all’Ucraina, che porti il timbro dell’Ue. In questa cornice l’emergenza greca poteva essere l’occasione giusta per ripensare una politica economica che ha provocato non poche macerie. Per limitarci ad Atene, il Prodotto interno lordo è in calo del 27% dal 2008, mentre il reddito reale è sceso di un terzo e la disoccupazione è salita al 28%. Nessun Paese, ha notato Martin Wolf del Financial Times, potrebbe affrontare numeri del genere senza un profondo (e auspicabile) cambiamento della politica. Di qui la simpatia ispirata da Syriza al momento della sua vittoria elettorale. Poteva essere l’occasione per sperimentare qualcosa di nuovo: uscire dall’austerità grazie a progetti di sviluppo comuni, con un respiro europeo, ma capaci di attrarre capitale da ogni dove, grazie alla calamita di una buona governance (garantita dalla Comunità) e della politica monetaria avviata da Mario Draghi.
Purtroppo, l’occasione è stata sprecata. Può darsi che, alla fine, si trovi un accordo risicato per evitare il Grexit. Ma la nuova leadership greca si è dimostrata inadeguata, ostaggio di una sinistra massimalista come degli interessi dell’alleato di centro To Potami (finanziato dagli armatori che difendono i loro privilegi fiscali). Di qui il no pregiudiziale anche alle richieste di riforma più ragionevoli e necessarie: dal sistema previdenziale (oggi è previsto il pensionamento ai 56 anni, piuttosto che l’assegno di reversibilità per le figlie nubili) alla riforma del regime dell’Iva che garantisce solo gli evasori. Non si può chiedere, come emerge dai sondaggi, di restar dentro l’unione monetaria senza rispettarne le regole minime. Atene poteva esser un laboratorio, minaccia al contrario di trasformarsi in un focolaio di crisi permanente, più o meno assistito.
E questo ha disarmato le speranze di un possibile cambio di passo del Vecchio Continente. In linea teorica, l’uscita pilotata dalla moneta unica, un possibile piano B di cui si discute ormai apertamente, potrebbe permettere al Paese di recuperare, grazie a una moneta più debole, la competitività necessaria. Ma non si vede perché la Grecia, una volta rifiutate le riforme chieste dall’Eurogruppo e dal Fmi dovrebbe operare un cambiamento una volta uscita dall’Ue. Si profila, al contrario, il rischio di un’altra Argentina in default, stavolta però senza materie prime e una pesante dipendenza dalle importazioni.
Il risultato? L’Europa di oggi, piaccia o non piaccia, non presenta alternative al realismo di Angela Merkel. Le altre strade, in concreto, sono ben poca cosa: la pressione populista, di destra o di sinistra; i problemi nazionali di David Cameron e ambasce di premier logorati dall’assenza di una convincente ripresa dell’economia, piuttosto che vittime dei propri limiti (vedi la “buona scuola” piuttosto che il provvedimento sulla bad bank dato per “imminente” da almeno tre mesi). Ma adagiarsi sulla formula Merkel vuol dire sposare la politica dell’obiettivo del pareggio di bilancio che impedisce il decollo di un’energica politica delle infrastrutture (a meno che a pagare il conto non si offra la Cina, in cambio di rilevanti vantaggi politici).
In questa situazione non si cambia rotta, come se vivessimo nel migliore dei mondi possibili. “L’attuale contesto caratterizzato da una vigorosa ripresa economica e da favorevoli condizioni finanziarie dovrebbe essere sfruttato per procedere più speditamente verso gli Omt e rafforzare la solidità delle economie dell’area”. Questo si legge nel Bollettino economico della Bce a mo’ di commento della congiuntura favorevole dell’Eurozona quale emerge dall’analisi di Francoforte. Salvo la Grecia, difficile trovare una sola nuvola nei cieli dell’Unione, a leggere l’analisi degli uffici della Bce.
“La ripresa economica dell’area dell’euro – si legge ancora – ha continuato a mostrare un graduale consolidamento”. E ancora: “Dagli inizi del 2015 la ripresa ha mantenuto lo slancio e si è estesa tra i paesi dell’area dell’euro beneficiando del calo dei prezzi del greggio e del miglioramento delle condizioni di finanziamento grazie agli effetti della politica monetaria tramite il Quantitative easing”. La congiuntura favorevole promette di proseguire perché “sostenuta in misura crescente dal graduale rafforzamento della domanda estera e dal deprezzamento dell’euro. In aggiunta, fattori quali gli aggiustamenti di bilancio del settore privato e di quello pubblico, che negli ultimi anni avevano contribuito al prolungato periodo di crescita molto debole del Prodotto interno lordo reale, stanno gradualmente invertendo la tendenza ed esercitando un’influenza meno negativa sull’attività economica nell’area dell’euro”.
Il messaggio, insomma, è chiaro: l’Europa va nella giusta direzione. Non solo non si deve cambiar rotta, puntando su politiche più espansive, ma vanno limitate le “eccezioni” concesse a Italia e Francia, oggi assai al di là dei limiti consentiti. E la Grecia? Un grosso problema, ma che va risolto facendo ricorso alle regole già in rigore senza intaccare i principi generali del Fiscal compact. Per ora il rischio default della Grecia ha avuto soprattutto l’effetto di pesare sull’andamento di Btp e Bonos spagnoli. “L’ampliamento degli spread è stato determinato soprattutto dalle incertezze che circondano l’accesso ai finanziamenti della Grecia. Tuttavia, in una prospettiva a più lungo termine, si è osservata una convergenza tra i rendimenti sovrani significativa e relativamente costante all’interno dell’area dell’euro (salvo la Grecia)”.
Insomma, la variabile greca, con tutte le sue incognite, non ha inciso più di tanto sul pensiero dominante in Europa. Forse lo farà, speriamo di no, in caso di tracollo. Ma per ora, l’unica stella polare, è la “flessibilità” sia delle economie che degli assetti sociali, come ha auspicato Mario Draghi. Una società più “americana” che rappresenta una proposta “fredda” per un’area ricca ma impaurita, vecchia e bisognosa di nuove energie, ma che sente a rischio la sua identità. E perciò reagisce erigendo muri, il più delle volte (ma non sempre) virtuali.
In questa cornice, l’economia tiene, come sottolinea giustamente la Bce, grazie al petrolio debole e alla domanda in arrivo dai Paesi extra-Ue. Ma il mondo, come dimostra la decisione della Fed di rinviare l’aumento dei tassi (la locomotiva americana è in, seppur lieve, frenata) dopo sette anni di crisi, non è guarito. E, come ha sottolineato The Economist, non è in grado di concedersi il lusso di una nuova recessione, che potrebbe favorire il cambiamento dei paradigmi dell’economia. Si tira avanti così, al piccolo trotto, con l’ipoteca di debiti sempre più pesanti (e minor spazi per gli investimenti).