L’aria inizia a farsi pesante per il governo tedesco. Un editoriale del quotidiano Die Zeit ha accusato l’esecutivo di aver realizzato copiose vendite di armamenti militari alla Grecia già in crisi, dal 2010 in poi. Un’inchiesta che pesa con un duro giudizio morale nei confronti di chi ha gestito la crisi e i rapporti con Atene.
Tale articolo esce in un momento in cui si alterna di continuo il balletto delle dichiarazioni e delle ipotesi sul salvataggio della Grecia o sull’uscita dall’Euro con relativo default sul debito. Un balletto snervante per tutte le parti politiche, ma soprattutto per quelle tedesche che soffrono del dilemma di non pagare il conto del fallimento (o non farlo sapere agli elettori tedeschi) oppure lasciare la Grecia al suo destino (ma vuol dire comunque prendersi il danno del denaro prestato e che non verrà restituito). Tanto snervante, per i politici tedeschi, che l’impassibile Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo, è sbottato dicendo: “Ne ho le scatole piene della Grecia”.
Una cosa è chiara: la Grecia non ha i soldi, se non quelli che gli verranno dati. Di fronte a questa realtà, il pagamento della prima rata al Fmi è slittata a fine mese, con la pietosa bugia che verranno saldate tutte e quattro le rate in scadenza. Ma nessuno capisce che non è possibile che, non avendo ora i soldi per una rata, a fine mese ce ne siano per pagarne quattro.
Non va meglio sui mercati finanziari. Dai massimi di aprile, l’indice tedesco Dax ha perso il 10%; i mercati di tutto il mondo sono in fibrillazione poiché, oltre all’eccesso di liquidità che fatica sempre più a trovare rendimenti accettabili e privi di rischi, l’economia reale continua a stentare senza riuscire a trovare una via d’uscita dalla crisi. Anzi, le avvisaglie di nuovi momenti di difficoltà continuano a moltiplicarsi. Persino in quelle economie che dovrebbero spingere verso la crescita vi sono segnali preoccupanti. In Cina, per esempio, vi sono stati dei fallimenti di grosse aziende, una cosa allarmante in un’economia che rimane in forte crescita e con grande liquidità a disposizione. Il clima di incertezza sui mercati internazionali non sta aiutando, ma la borsa tedesca ne ha sofferto più di altri.
In tutto ciò, da qualche tempo la Germania è scossa da una serie di scioperi che vedono come protagoniste tutte le maggiori categorie di lavoratori. Macchinisti, insegnanti, dipendenti delle poste: non si tratta di proteste isolate, ma della progressiva disintegrazione del modello tedesco, tutto fondato sulle esportazioni ma deprimente per il mercato interno. Inoltre, la progressiva privatizzazione dei servizi pubblici, combinata con la disoccupazione che l’ha accompagnata, ha messo sempre più in competizione i salari del settore pubblico, portando problemi fino a quel momento sconosciuti per i sindacati.
La paura della disoccupazione (ma guarda com’è piccolo il mondo!) è anche responsabile della mancata volontà dei lavoratori manifatturieri tedeschi di contribuire al riequilibrio macroeconomico dell’Unione europea, che trarrebbe giovamento dall’aumento dei loro salari in modo da limitare il surplus commerciale tedesco. Un surplus che tra l’altro è una dichiarata violazione dei trattati europei. E questo surplus finisce per ingrassare le tasche di imprenditori e azionisti, mentre lo scarso salario dei dipendenti deprime il mercato interno. Ma il tempo dei grassi profitti non può durare a lungo e l’economia reale prima o poi si prenderà cura di presentare l’amaro conto.
Infatti, il surplus tedesco può avvenire solo con un deficit degli altri paesi europei, i quali presto o tardi smetteranno di spendere, per tentare di riequilibrare i propri conti (in fin dei conti, lo chiede l’Europa!). A quel punto, con l’esportazione in stallo e il mercato interno già depresso per la scarsa capacità di spesa dei consumatori tedeschi, si prospettano momenti durissimi per l’economia teutonica. Effetti perversi della moneta unica, che impedisce la flessibilità di un cambio variabile e costringe a scaricare sul lavoro, cioè sui salari, gli aggiustamenti necessari alla competitività.
A conferma di quanto detto, possiamo osservare cosa succede in Ungheria. Per ironia della sorte, anche lì sono annunciati degli scioperi; anche il clima è completamente diverso: il governo propone un aumento salariale pari al 2,4%, mentre i sindacati chiedono aumenti del 3-4% e ritengono inadeguata inoltre l’offerta di 135mila fiorini di buoni pasto all’anno. Insomma, una protesta completamente diversa in un contesto per nulla paragonabile a quello tedesco: con un Pil in crescita e la disoccupazione in continuo calo, le tensioni sociali sono ridotte ai minimi termini in virtù di una coesione sociale dovute a prospettive di continuo miglioramento. Le tensioni dei mercati internazionali qui non trovano appigli. Merito di una moneta nazionale che può oscillare a seconda degli andamenti dell’economia reale e che la banca centrale ungherese può governare per difendere il mercato interno. Un’utile lezione anche per l’Italia?