Tra qualche ora, i Capi di Stato e di Governo dell’eurozona terranno una riunione straordinaria per decidere se e come risolvere il “pasticciaccio brutto” della Grecia, ornai da cinque anni al centro dell’attenzione dell’Unione europea – un costo elevato di “distrazione” da temi di maggior rilievo per il presente e il futuro dell’Unione medesima.
I prossimi esiti del vertice sono tre: a) un accordo che, con una riduzione del debito greco e nuovi finanziamenti europei, permetta ad Atene di fare fronte ai suoi impegni con il Fondo monetario internazionale e gli altri, e consenta ai partner che la Grecia effettuerà il “minimo sindacale” di riforme strutturali (ad esempio, in materia di pensioni e di Iva, per permettere a tutti di salvare la faccia; b) un ulteriore rinvio di qualche settimana nella speranza che l’accordo venga finalizzato in luglio dato che ci sarebbero già gli elementi di base; c) una rottura delle trattative con possibile uscita della Grecia dall’eurozona e dalla stessa Ue.
Di queste ipotesi, quella indicata in b) è la meno auspicabile: trascinerebbe il travaglio, pure sui mercati finanziari, senza assicurare un’intesa duratura, data la esperienza degli ultimi mesi (o peggio ancora dell’ultimo lustro). Quella in a) è auspicabile ma poco realistica dato che ormai è difficile dire che tra la Grecia e i suoi creditori ci sia il rapporto di fiducia minimo per poter lavorare insieme verso obiettivi comuni. A mio avviso, l’ipotesi più realistica è c), anche nell’eventualità che si cerchi di ritardare di qualche settimana la lacerazione ufficiale e formale (e si chiarisca se uscita dall’Eurozona implichi pure uscita dell’Ue).
Quindi, è utile esaminare i costi e i benefici di quest’ultima ipotesi per le parti in causa. I leader greci amano enfatizzare che i costi sarebbero molto più forti per l’Ue,e per alcuni Stati creditori, che per Atene. Ma la minaccia, effettuata con toni terroristici, va presa con le pinze. Indubbiamente, gli Stati che vantano crediti nei confronti di Atene si troverebbero con carta straccia inesigibile : l’Italia avrebbe una perdita secca alle ultime stime di 46 miliardi di euro – un enorme buco nei conti pubblici. Per molti commentatori, però, il costo maggiore per l’Ue sarebbe la perdita della sacralità dell’irreversibilità dell’euro.
Da mesi, su questa testata, ricordo che la storia economica dimostra che nessuna unione monetaria è stata irreversibile, neanche quella “dei Cesari” difesa dalle legioni romane. Anche come dimostra il caso recente dell’East African Community, un’unione monetaria che perde una ruota sgonfia (o la sostituisce) può essere più coesa e meglio funzionante. L’Europa soprattutto non rischia un “effetto domino” come nel 2011, quando la speculazione si accanì principalmente nei confronti di buoni del Tesoro di Governi che avevano acquistato, negli anni precedenti, forti carichi di derivati, ed era facilitata da due altre componenti quali la ripresa del mercato azionario russo (che attirava capitali alla grande) e l’operazione di ripulitura di “obbligazioni spazzatura” (in quello americano).
Da allora, poi, la Banca centrale europea si è dotata di nuovi strumenti di intervento – quali il Qe (Quantitative easing) e gli Omt (Outright monetary transactions) – che le consentono d’acquistare alla grande titoli di Stato italiani, ad esempio, ove la speculazione (come minaccia un Ministro greco) si accanisse nei confronti nel nostro mercato. Inoltre, la European banking union (Ebu), anche se in costruzione, è in buona parte partita. Ci sarebbero, però, effetti negativi sull’economia reale: si spegnerebbero (speriamo solo temporaneamente) i barlumi di ripresa dell’economia europea.
I costi graverebbero principalmente sulla Grecia e sui greci. Il sollievo procurato da non rimborsare i creditori sarebbe minimo e di breve durata, anche perché la Grecia, dopo il salvataggio del 2011, paga interessi minimi e fruisce di periodi di ammortamento molto lunghi. Il sistema bancario, tenuto in vita con misure di emergenza della Banca centrale europea (Bce) nonostante la vera e propria fuga di capitali e depositi in conto corrente, collasserebbe. Soprattutto, la sostituzione dell’euro con la dracma, o con cambiali in simil-euro, comporterebbe una boccata di ossigeno di breve periodo all’export (pari ad appena il 12% del Pil greco) e al turismo (sempre che moti di piazza e disfunzioni varie non tengano lontani i turisti), ma comporterebbe una svalutazione del 40-50% con una perdita fortissima del tenore di vita di almeno tre quarti delle famiglie greche. Le quali potrebbero voltare le spalle al Governo in carica – pur da loro eletto da pochi mesi. Il tanto sperato “oro di Mosca” è una favola: la Federazione Russa ha subito una massiccia svalutazione ed è tormentata da seri travagli interni. Al più darà al Governo greco una medaglietta da cavaliere. Ci riflettano Tsipras e Varoufakis…