La storia della “banca cattiva” (traduzione dall’inglese “bad bank”) sta diventando un tormentone, per il tempo in cui si trascinano annunci anche ufficiali, e infastidisce chi vede nel ruolo dello Stato un nuovo ingiustificato favore al settore bancario.

Due passi indietro necessari per spiegare in modo semplice l’argomento: la bad bank è una scatola giuridica (banca, fondo, veicolo societario) che dovrebbe avere soci e capitale per acquistare e separare dalle banche italiane una parte rilevante dei quasi 200 miliardi di prestiti in sofferenza accumulati a velocità straordinaria dal 2010 a oggi. Non è un’idea innovativa perché è già stata utilizzata nel periodo della crisi da altri paesi, in particolare Irlanda e Spagna, per risolvere gravissime crisi bancarie causate dal crollo dei prezzi nel settore immobiliare finanziato a occhi chiusi dalle banche. 



I difensori del progetto bad bank italiana, incluso il Mef, affermano che il caso italiano è diverso dai precedenti e spiegano che il trasferimento delle sofferenze dalle banche a un veicolo di smaltimento graduale avrà l’effetto immediato di sbloccare il credito all’economia.

Va spiegato anche che la situazione si è complicata per una catena di errori commessi dagli stessi protagonisti. A cominciare dalla sottovalutazione prolungata degli accantonamenti a fronte delle sofferenze, ispirata dalla protezione dei rapporti con gli azionisti (forti o popolari) e l’implicita continuità dei vertici; una sottovalutazione emersa prima da richiami ispettivi della Banca d’Italia, più recentemente dalle valutazioni della Bce su tutte le banche, che hanno innescato molti aumenti di capitale a copertura. Per continuare con il ritardo (rispetto agli spagnoli) nel varare il progetto bad bank italiano, la cui unica ragione era il timore dei banchieri e dell’Abi di creare panico nella clientela, fustigata di recente persino da Il Sole 24 Ore: «Per anni i Governi si sono gongolati nel ritornello: !Le banche italiane sono sane”. La realtà è che questo atteggiamento ha prodotto effetti devastanti sull’economia del Paese». Per chiudere con la bassa qualità di gestione delle sofferenze, lasciate a fermentare con processi di recupero lentissimi e poco innovativi, mai pensati per rimettere in equilibrio le imprese morose.



Il combinato disposto di sottovalutazioni, ritardi e bassa innovazione finanziaria ha portato il sistema bancario ad attendere un treno già passato tre anni fa e su cui sono saliti altri paesi risanando in questi anni le loro banche malate. Purtroppo, il prossimo treno che passa è guidato dalla Comunità europea e dalla vigilanza Bce, che hanno nuove regole che vietano aiuti alle banche dalla mano pubblica. Esperti del ministero dell’Economia, della Banca d’Italia e consulenti aggregatisi nel tempo lavorano da mesi, facendo e rifacendo progetti che vengono smontati da Bruxelles, a cui non garba vedere nella banca cattiva la garanzia dello Stato, anche se pagata dalle banche (stesso principio dei Tre-Monti bond). Garanzia indispensabile per chiudere la forbice tra i valori (alti) a cui le banche scrivono in bilancio le sofferenze e i prezzi più bassi a cui il mercato delle sofferenze è disposto a pagarle. 



Una forbice che si sta riducendo grazie alla ripresa del mercato immobiliare e alle migliori prospettive economiche, motivo per il quale la fretta è cattiva consigliera e si producono più annunci di soluzioni (a cui i titoli bancari reagiscono positivamente), che non soluzioni definitive.

Per finire può essere utile scavare nella torta dei buoni propositi con cui giustificare l’intervento statale, basato su tre equazioni: 1) senza credito l’economia non riparte, 2) solo togliendo le sofferenze dai bilanci delle banche il credito può ripartire e 3) le banche ripulite dalle sofferenze sono più attraenti per gli investitori istituzionali. A prima vista una costruzione logica, ma per chi conosce i meccanismi finanziari non del tutto convincente. 

Prima di tutto affermare che le imprese italiane sono troppo indebitate, opinione del governatore Visco, e poi invocare nuovo ampio credito sembra incoerente. Le imprese italiane devono accettare l’idea di sostituire debito con capitale se vogliono davvero ripartire. In secondo luogo, le banche possono concedere nuovo credito anche portando e gestendo il carico di sofferenze, tanto è vero che Intesa SanPaolo e Unicredit lo stanno facendo, recintando i crediti dubbi e rinunciando pubblicamente a entrare nella bad bank. La bugia serve alle banche medie e piccole che hanno “scordato” di fare accantonamenti adeguati per anni e sperano in un aiutino. Quanto agli investitori istituzionali sono stanchi di indovinare quale sia il reale valore degli attivi di bilancio e da anni penalizzano i titoli bancari italiani dubitando dei numeri di sofferenze e inadempienze probabili. Gli investitori attendono la pulizia e la trasparenza per comprare i titoli, intascare plusvalenze il più rapidamente possibile cavalcando la prima fase del recupero borsistico, senza pensare a diventare azionisti di lungo periodo, com’è insito nella loro volatile natura. Non sarebbe meglio preoccuparsi di azionisti stabili per il futuro delle banche italiane? Non sarebbe equo applicare alle banche lo stesso cinismo darwiniano espresso dai banchieri agli imprenditori: “chi perde e non ha futuro deve scomparire dal mercato”? 

Perché la legge economica è uguale per tutti e nel resto del mondo le banche possono fallire quando sbagliano troppo. Alcune banche – fortunatamente poche – non meritano di nascondere i loro drammatici errori nella generosa pancia pubblica che sta arrivando in soccorso.