Alla fine, dopo un’attesa che dà la misura delle tensioni in corso, ieri la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della normativa che prevede dal 2010 il blocco della contrattazione nel pubblico impiego. È dunque prevedibile che nelle prossime settimane i settori contrattualizzati della funzione pubblica aprano con il Governo (in realtà con l’Aran) una stagione di trattative per il rinnovo di un contratto che è fermo da anni.
È una decisione che, a quanto è dato capire dai comunicati stampa, è destinata a valere solo per il futuro, dando per presupposto che il lasso di tempo intercorso dal 2010 a oggi sia un periodo di tempo definitivamente perso per i lavoratori del pubblico impiego, che difficilmente recupereranno l’anzianità perduta. Ed è una decisione che interviene a poche settimane di distanza da un’altra decisione – quella sul recupero del blocco delle pensioni – che ha aperto, per il Governo, una fase particolarmente delicata nei suoi rapporti con le categorie. Non a caso, nelle settimane scorse si era dato forte risalto all’annuncio della Avvocatura di Stato per cui un accoglimento retroattivo avrebbe importato per il Governo un maggiore onere, a regime, di 35 miliardi di euro.
Come si fosse arrivati a questo conteggio, da parte della Avvocatura di Stato, non è stato spiegato sulla stampa. Ed è lecito avanzare qualche dubbio sull’effettiva entità della cifra. Sta di fatto che la pubblicizzazione dell’eventuale maggiore onere per le casse dello Stato ha avuto quantomeno l’effetto di alzare la tensione e di sovraccaricare il profilo politico della decisione che spettava alla Corte.
La soluzione è stata quella di ritenere che il blocco della contrattazione collettiva possa giustificarsi temporaneamente in fasi di crisi, ma che sia poi destinata a cedere il passo, non potendo questo blocco protrarsi indefinitamente nel tempo, pena lo spossessamento del diritto di queste categorie alla contrattazione. Le motivazioni ci diranno più in dettaglio come la Corte abbia armonizzato la scelta far decorrere solo per il futuro gli effetti della sentenza con la sua precedente giurisprudenza sul blocco delle pensioni.
Quel che è certo è che da quest’anno la Corte costituzionale ha cominciato a fare i conti con la nuova dizione dell’art. 81 e con l’obbligo del pareggio di bilancio che il Governo Monti ha introdotto in Italia in ossequio al Fiscal compact e ai desiderata dei nostri (si fa per dire) partner europei.
La vicenda che è seguita alla dichiarazione di incostituzionalità del blocco delle pensioni (dec. 70/2015) e le polemiche che ne sono scaturite, in realtà hanno messo in mostra come ormai la situazione costituzionale complessiva sia mutata – e non di poco – dopo l’introduzione di questo vincolo che rappresenta ormai, all’interno del nostro ordinamento costituzionale, un principio superiore a cui tutti gli altri diritti devono piegarsi.
Tanto è vero che, se la Corte avesse deciso di procedere a un normale annullamento, avrebbe dovuto essere ritenuta responsabile, stante la rigidità introdotta nel sistema dall’art. 81 cost., di una manovra di aggiustamento finanziario dell’entità indicata dall’Avvocatura. Insomma, i soldi dati ai pensionati (o ai dipendenti pubblici) avrebbero dovuto essere ritrovati da qualche altra parte. E la responsabilità di questa nuova guerra tra poveri (o tra generazioni) avrebbe dovuto essere solo della Corte.
Forzando la disciplina del processo costituzionale – e la stessa Costituzione – la Corte si è inventata l’annullamento pro futuro. Il che – per stavolta – le ha consentito di mediare tra la rigidità del bilancio pubblico e l’esigenza di tutelare al meglio i diritti del lavoro. Ed è un risultato da salutare, per stavolta, con grande favore.
Non è detto però che queste mediazioni siano destinate a essere sempre possibili. Quello che si fa fatica a capire e a mettere a fuoco – ma che si comincia ora a vedere con migliore chiarezza – è che l’impianto costituzionale del Paese è sostanzialmente cambiato dopo l’introduzione del nuovo art. 81 cost. Il principio del pareggio di bilancio è solo apparentemente una norma costituzionale tra le altre. In realtà è lo strumento attraverso cui si è realizzato l’aggancio definitivo a una politica economica e a una politica sociale che è destinata a mutare definitivamente – e drammaticamente – il volto del Paese, come questi anni crisi dovrebbero avere dimostrato a tutti.
Da questo punto di vista, quanti vedono nella Corte il soggetto cui dovrebbe spettare il compito di tutelare il principio del pareggio di bilancio non si rendono conto – o fingono di non rendersi conto – che in questo modo tutta la Costituzione viene a subordinarsi alle esigenze di coloro che hanno premuto per l’introduzione di questo principio, trasformando i diritti costituzionali in diritti destinati a valere nei limiti di un bilancio statale che non è più governato dallo Stato – e dunque dai cittadini – nelle sue grandezze di fondo. Ma che è governato dall’esterno: e cioè da banche e finanza, mentre agli organi politici dello Stato tocca ormai solo il compito di “fare i compiti a casa”. E cioè rispettare le grandezze macroeconomiche programmate, pena la perdita di “credibilità” o il “conflitto” con le generazioni future.