«Renzi convochi i sindacati e dica loro che chiude il rinnovo del contratto della Pubblica amministrazione senza un solo euro di aumento. Se non è capace di farlo significa che non è all’altezza del ruolo di presidente del consiglio, e quindi è molto meglio che se ne vada a casa». Sono le parole di Nicola Rossi, docente di Analisi economica all’Università Tor Vergata di Roma ed ex deputato prima del Pd e poi del Gruppo Misto. Mercoledì la Corte costituzionale ha reso nota la sua sentenza, dichiarando illegittimo il blocco dei contratti e degli stipendi della Pubblica amministrazione, ma non per il passato. L’Avvocatura dello Stato nelle settimane scorse aveva fatto sapere che la “contrattazione di livello nazionale, per il periodo 2010-2015, relativo a tutto il personale pubblico, non potrebbe essere inferiore a 35 miliardi”.



Professore, come commenta questa sentenza?

È una sentenza che tiene insieme due esigenze diverse: il principio costituzionale del pareggio di bilancio e il diritto a chiudere una vertenza contrattuale. Quest’ultimo però è un diritto che non va inteso come si fa comunemente. Ancora una volta paghiamo le conseguenze delle decisioni prese nel modo sbagliato. La cosa giusta da fare sarebbe stata che il governo si presentasse al tavolo del rinnovo e dicesse che per gli statali non c’è un euro, chiudendo quindi un contratto collettivo a costo zero. Anche se per la verità sarebbe stato meglio farlo addirittura con una riduzione. L’Italia sconta l’incapacità dei nostri politici di seguire la strada maestra.



Per i promotori del ricorso, i costi della sentenza sono pari a 900 milioni di euro l’anno. In fondo non è una cifra astronomica…

Ho visto cifre talmente disparate e così lontane tra di loro che mi riesce complicato dire quale sia quella esatta. Il ragionamento va fatto a prescindere dall’entità. Anche se si trattasse di un solo euro, un governo che si rispetti non si trincera dietro a una legge, ma si siede al tavolo con i sindacati e spiega loro che le condizioni del bilancio pubblico non permettono nuovi aumenti. Proprio come un buon imprenditore il quale spiegherebbe che il bilancio dell’azienda non permette incrementi, e addirittura può richiedere riduzioni. Il governo se è in grado deve fare lo stesso, anche se io temo che non ne sarà capace.



Il premier, che ha annunciato che vuole ritornare al “Renzi 1”, riuscirà a fare queste scelte “scomode”?

Da questo punto di vista il presidente del consiglio è vittima di un abbaglio. La netta caduta di popolarità di Pd, governo e presidente del consiglio non è la conseguenza del fatto che la gente preferiva il Renzi 1. Molto semplicemente la gente ha visto il presidente del Consiglio all’opera per un anno e ora sta esprimendo una valutazione. Il Renzi che dava l’assalto al Palazzo era certamente molto più convincente del Renzi che poi arrivato nel Palazzo si insedia e governa. Messo alla prova mostra dei limiti fin troppo evidenti nella capacità di gestione. Paradossalmente si potrebbe applicare al presidente del consiglio quello che lui stesso dice di Marino: “Se è in grado governi, altrimenti vada a casa”.

Quindi a questo punto per fare fronte agli effetti della sentenza, Renzi aumenterà le tasse?

In parte sicuramente sì, tanto è vero che lo ha già detto. La riduzione delle tax expenditures, quali detrazioni e deduzioni, è a sua volta un aumento d’imposta. La spending review procede con grande difficoltà, speriamo che riesca a produrre risultati perché il Paese non è in grado di sopportare incrementi ulteriori della pressione fiscale. Le tasse troppo gravose sono uno dei principali problemi del Paese, eppure finora non è stato affatto toccato. All’inizio dell’anno il premier ha annunciato che le tasse non sarebbero aumentate, ma gli italiani ormai si aspettano qualcuno che le riduca e non che le lasci dove sono.

 

Questa sentenza dà ai sindacati un’arma in più nella partita sulla riforma della PA?

In linea di principio potrebbero finire sullo stesso tavolo cose che dovrebbero restare separate, e cioè le questioni organizzative della PA e aspetti strettamente contrattuali. Ancora una volta tutto dipende dal governo, che deve dimostrare la capacità di esaminare i problemi della PA in termini “industriali”. Il governo infatti è il datore di lavoro.

 

Alla luce di questa sentenza i dipendenti del settore pubblico in Italia sono privilegiati rispetto a quelli del privato?

Il segno del privilegio è che la riforma del mercato del lavoro non si applica ai dipendenti pubblici. Capisco che ci sia un dibattito su che cosa significhi che il dipendente pubblico possa essere messo in mobilità. Ma da questo a costruire una tutela granitica del dipendente pubblico ce ne passa. La Pubblica amministrazione offre ai consumatori un prodotto che non è percepito da questi ultimi in modo soddisfacente. A parità di condizioni, qualunque azienda privata aprirebbe un processo di ristrutturazione che comporterebbe necessariamente lo spostamento o la messa in mobilità di alcuni dipendenti.

 

(Pietro Vernizzi)