Nuovi dati sull’economia italiana sono arrivati ieri. La fiducia dei consumatori rilevata dall’Istat a giugno è salita a 109,5 punti dai 106 del mese precedente, mentre per le imprese il dato è passato da 101,8 a 104,3, un livello che non si vedeva dal giugno 2008. E il Centro Studi di Confindustria ha deciso di alzare le proprie stime di crescita: il Pil salirà del +0,8% quest’anno e dell’1,4% il prossimo, contro previsioni che a dicembre erano rispettivamente dello 0,5% e dell’1,1%. Abbiamo chiesto un commento a Ugo Arrigo, Professore di Finanza pubblica all’Università Bicocca di Milano. 



Professore, cosa ne pensa dei dati Istat?

Si tratta di indubbi e inequivocabili segnali di miglioramento, che ci dicono che gli attori economici sono più ottimisti rispetto al passato sulla situazione economica. Ma essere più ottimisti significa anche ricominciare a consumare, a produrre, a investire? Il vero punto è quindi: questi segnali di miglioramento si traducono in aumenti non trascurabili della domanda e del Pil? Mi sembra che finora ciò non sia avvenuto.



In effetti, giovedì il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, aveva detto: “Siamo in una fase di ristagno. Siamo fermi e questo è un problema. Solo alla fine di quest’anno l’Europa tornerà ai livelli produttivi del 2008, ma l’Italia è ancora lontana e serviranno diversi anni”.

Abbiamo grosso modo un 10% di Pil da recuperare. A furia di crescite da “zero virgola” come quella prevista per il 2015 rischiamo di metterci 20 anni. 

Dunque è stato sbagliato finora parlare di “ripartenza”, di “svolta” dell’economia italiana?



L’Italia ha svoltato, è uscita fuori dalla recessione, ma è ferma. La domanda di fondo che dobbiamo porci è: sarà mai più possibile una crescita ragionevole dell’Italia, intendendo con crescita ragionevole qualcosa intorno all’1,5% l’anno?

Secondo lei, sarà possibile?

Io credo di no. Soprattutto per l’elevata pressione fiscale attuale. Basti pensare che l’aliquota previdenziale italiana sul fattore lavoro è la più alta tra i paesi Ocse. Chi glielo fa fare agli italiani di mettersi a produrre, a prendersi un rischio economico, con la certezza che il fisco gli porterà via gran parte dei guadagni (sempre ammesso che riescano a ottenerli)? Oggi il Paese è tale da disincentivare qualsiasi tipo di imprenditorialità, anche a livello burocratico. Inoltre, in cambio delle tasse che si pagano, lo Stato cosa offre? 

A questo riguardo, Enrica Laterza, Presidente di Coordinamento delle Sezioni riunite della Corte dei Conti, ha detto che “la prospettiva di una pressione fiscale che resti sull’attuale elevato livello appare difficilmente tollerabile”. Come si possono tagliare le tasse in Italia?

Bisogna partire dalla spesa per poter poi ridurre la pressione fiscale. La faccio breve: il fisco non si può riformare se prima non si sistema la Pubblica amministrazione.

In che modo?

L’occasione ce l’ha data la Corte Costituzionale: bisognerà rinnovare il contratto dei dipendenti pubblici e in cambio degli aumenti salariali si può cominciare a introdurre il principio per cui vengono pagati in base a quello che producono e non a quello che costano. Soprattutto occorre intervenire sulla dirigenza, dove a fronte di stipendi molto elevati rispetto agli standard internazionali vi sono performance degli uffici coordinati assolutamente inferiori a quelle degli altri paesi.

 

Secondo lei, Renzi è in grado di fare tutto questo?

Avrebbe avuto il consenso e i numeri per farlo. Non mi pare però che finora abbia osato così tanto. Il problema è che o si riforma il Paese oppure è meglio che calcoliamo quanto ci metteremo ad arrivare a una situazione simile a quella greca. Del resto se non cresciamo il debito pubblico diventerà insostenibile. Forse si cerca di nascondere la gravità della situazione, si pensa che bastino le manovre di Draghi per rendere non palese il peso del debito pubblico. Insomma, si nasconde la polvere sotto il tappeto, ma prima o poi il Quantitative easing finirà e il debito pubblico tornerà a riemergere.

 

Le parole di Visco e Laterza possono essere interpretate come una “bocciatura” dell’operato del Governo?

Secondo me, esprimono la consapevolezza del fatto che non si è fatto finora tutto quello che è necessario fare. Detta in altri termini, quello che resta da fare è molto di più di quello che si è fatto. 

 

Come, per esempio, la riforma elettorale…

Certamente si tratta di una riforma che non garantisce una crescita del Pil e non rende più sostenibile il debito pubblico…

 

Nel frattempo si continua a lavorare alla spending review.

Dopo aver fatto compiere a Cottarelli un lavoro approfondito e accurato, nessuno dei suoi consigli più rilevanti è stato adottato, quindi si è cambiato il responsabile della spending review. Se però i problemi della spesa sono quelli, non è che un’altra persona può trovare qualcosa di diverso. Sembra quasi che non si voglia fare niente sul tema…

 

(Lorenzo Torrisi)