Cosa vi avevo detto ieri che bisognava preoccuparsi della Cina e non della Grecia? Per due motivi. Primo, perché ieri da Bruxelles le voci parlavano di un terzo piano di salvataggio da 15,5 miliardi di euro proposto dai creditori al governo ellenico per sbloccare l’impasse e arrivare a un accordo prima della riapertura dei mercati di lunedì: negli articoli della scorsa settimana io ipotizzavo un piano da 35 miliardi e vi dimostravo come non sarebbe servito concretamente a niente, visto il carico di interessi e rimborsi che gravano su Atene. Figuratevi 15,5 miliardi, acqua fresca. Secondo, perché la Cina è un gigante con i piedi d’argilla, a livello finanziario, come vi ho dimostrato nell’articolo di ieri. Bene, 24 ore fa Shanghai ha chiuso la settimana di trading con un sobrio -7,6% e c’è chi ha fatto peggio, come ci mostrano i grafici a fondo pagina: il Chinext, l’indice tecnologico cinese, ha toccato un minimo intraday del -8,3%, il calo maggiore in un singolo giorno e ora si trova a -27% dai massimi. Correzione piena e anche l’indice principale, lo Shanghai Composite, sta flirtando con il “bear market”, oggi a -13,5% dai massimi. Chissà come saranno contenti quei contadini, impiegati, operai, casalinghe che hanno comprato equities come fossero surgelati in offerta: ben vi sta, la prossima volta state lontani dal casinò azionario di Stato. O, almeno, vi accontentate di un discreto +50% e scendete dalla giostra.
Direte voi, la vecchia legge del comprare sui cali non vale più? Potrebbe esserci un rimbalzo? Difficile in un Paese dove i regolatori stanno dicendo agli asset manager professionisti di non speculare sui titoli (e lì le minacce vanno prese sul serio) e soprattutto perché quando questa domanda è stata rivolta agli analisti di Morgan Stanley la riposta è stata secca: no, non comprare sui cali. Il perché è presto detto e ricalca il mio articolo di ieri: è vero, il governo cinese ha un disperato bisogno di mantenere vivo il miracolo del mercato azionario per distrarre l’attenzione dai problemi immediati, l’economia che rallenta e soprattutto la bolla real estate, drammaticamente legata però alla Borsa e al credito. Ma con un debito dei governi locali al 35% del Pil e con uno stock di debito da 28 trliardi di dollari che grava sull’economia, è difficile riuscire a controllare la situazione, tanto più che la Pboc deve far fronte al combinato di fuga di capitali che accelerano ed export che langue, un mix che renderebbe la svalutazione dello yuan contemporaneamente necessaria e impossibile.
In un contesto simile, capite da soli che un collasso del mercato azionario sarebbe un disastro non solo finanziario ma anche politico, visto che finora il rally è stato garantito dall’aumento esponenziale del trading sul margine – che comincia a perdere vigore – ora minacciato dalle margin calls legati ai cali superiori all’indice benchmark per alcuni titoli e a notizie come quella dell’inclusione delle A-share cinesi nell’indice Msci Emerging Markets, di fatto non vera ma che per un po’ ha permesso alla musica di continuare a suonare. Ora che qualche decina di migliaia di cinesi ha scoperto suo malgrado che i titoli possono anche scendere, oltre che salire, entra in gioco il fattore sostenibilità dei corsi, tanto che Morgan Stanley ritiene che Shanghai, Shenzhen e Chinext abbiano già toccato il picco del ciclo, quindi non conviene comprare sui cali.
Quattro i fattori di preoccupazione per la banca d’affari: l’aumentata offerta di equity, la continua bassa crescita degli introiti in un contesto di decelerazione economica, alte valutazioni e un eccessivo margin debt sul flottante libero della capitalizzazione di mercato. Chissà se la grande stampa da domani offrirà la stessa evidenza euforica ai 2 triliardi di dollari persi in due settimane dalla Borsa cinese che mise in campo quando sempre due settimane fa gli indici del Dragone superarono i 10 triliardi di capitalizzazione di mercato. Certo, lo Shanghai Composite nonostante tutto è ancora a +34% da inizio anno, ma nelle ultime settimane sta vivendo in un contesto di volatilità estrema, con cali intraday anche del 4% per poi chiudere in positivo magari del 2% sul finire di contrattazioni. Basta poco per tramutare la palla di neve in valanga in queste condizioni di mercato, tanto più che i cali stanno spaventando sempre più investitori retail, visto che questa settimana i prestiti sul margine degli indici cinesi combinati sono calati per quattro giorni di fila, frangente accaduto l’ultima volta nell’aprile 2014, prima della partenza del rally.
E proprio un calo del margin debt potrebbe essere il catalizzatore di una correzione più netta, visto che il suo livello è aumentato di 5 volte in un anno ed è ora a quota 350 miliardi di dollari, più di Wall Street. Per questo Bank of America ha definito la bolla cinese peggiore di quella tech del 2000 e prevede un calo del 20-30% quando esploderà, mentre Credit Suisse crede che ci sia ancora margine di crescita e che la bolla comincerà a esplodere davvero nei prossimi sei mesi.
C’è poi un assunto base per il quale la ricetta Usa della finanziarizzazione dell’economia non può funzionare in Cina ed è esplicitato dal grafico a fondo pagina, il quale ci mostra come gli assets finanziari rappresentino il 70,3% di tutti gli assets detenuti da cittadini Usa, una percentuale record ovviamente frutto del Qe della Fed, mentre gli assets più detenuti dai cinesi sono immobiliari, visto che il real estate pesa per il 74,7% del totale. Partendo da questo, ecco spiegato perché, nonostante Pechino stia cercando di rimpiazzare la bolla immobiliare con quella azionaria nel suo progetto di trasformazione della società da produttrice a consumatrice, il cosiddetto “effetto benessere” (“wealth effect”) borsistico sull’economia in Cina è praticamente nullo.
In mercati sviluppati come quello Usa, spesso indici al rialzo corrispondono ad aumenti della spesa per consumi e supporto alla crescita ma in Cina non è così: lo Shanghai Composite è salito del 122% negli ultimi dodici mesi, mentre le vendite al dettaglio nei mesi di aprile e maggio sono salite a livello annualizzato solo del 10%, il tasso di crescita più basso da cinque anni. Nonostante l’enorme numero di partecipanti retail al mercato equities cinesi, le proporzioni sono ancora ridotte: solo un cinese su 15 detiene azioni, contro più di un americano su due. Quindi, in Cina da un lato sono ancora i più abbienti a investire – i quali tendono ad accantonare i profitti, piuttosto che spenderli -, mentre chi compra equity come investimento differenziato, tende a non spendere per investire ancora di più in azioni sfruttando il rialzo che appariva inarrestabile. E questo contesto rende molto più doloroso e pericoloso un eventuale evento di crollo azionario.
In Cina ci sono 89 milioni di investitori con un conto titoli su una popolazione di 1,3 miliardi di persone, stando a dati della China Securities Depository anche Clearing dello scorso maggio, quindi solo un 7% di cittadini tratta azioni ma al 12 di giugno scorso solo sul 55% di quei conti c’erano realmente titoli in detenzione. Insomma, quando i costi degli immobili sono saliti troppo, i cinesi hanno abbandonato il loro assets preferito di investimento e si sono lanciati sul mercato, di fatto deprimendo la spesa per consumi perché si acquistano solo titoli. Lo conferma Shaun Rein, direttore dell’istituto demoscopico China Market Research, a detta del quale «invece che comprare una nuova macchina, molta gente ha deciso di prenderla in leasing per la prima volta per avere i soldi e continuare a investire».
È il caso, riportato dal Wall Street Journal, della signora Xiaolin Zhang, casalinga di Shangai, che solitamente spendeva un terzo del suo budget comprando abiti e cosmetici su Taobao.com, il portale di e-commerce più grande del Paese. Ora, invece, investe in Borsa: «Fare trading è più divertente che navigare in cerca di occasioni su Taobao», ha dichiarato. Ma in un Paese che già vede la crescita dei salari reali rallentare continuamente, passando dal 9,8% del 2012 al 6,4% dello scorso anno, quando partono le margin calls, le varie signore Zhang rischiano di finire letteralmente in rovina, di farsi prendere dal panico del non professionista e di tramutare la proverbiale palla di neve in valanga.
Spero di sbagliarmi, altrimenti a settembre ci sarà veramente materiale su cui scrivere. Ma necrologi finanziari.