L’ennesima notizia dal fronte euro-greco non è l’ennesimo accordicchio in cantiere dopo che i mercati hanno cominciato a dare ennesimi segni di nervosismo (oppure: hanno ricominciato a speculare sulle tensioni nell’eurozona).

La hard new appare, fin dalla notte fra lunedì e martedì, di natura squisitamente politico-istituzionale. L’accordo-tampone non è stato impostato come in passato in un Ecofin o in un Eurogruppo, cioè da tutti i governi interessati alla crisi greca (compreso quello di Atene). La minuta della cosiddetta “intesa” è stata scritta nello studio berlinese del cancelliere tedesco Angela Merkel. Qui si sono ritrovati fino a tardi, l’altra notte, il presidente francese François Hollande, la connazionale Christine Lagarde, direttore generale del Fmi, e il presidente della Bce Mario Draghi, di passaporto italiano. Last and least, al tavolo c’era anche il presidente della Commissione Ue, il lussemburghese Jean-Claude Juncker: la cui portavoce si è premurata di auto-ritagliare – a uso puramente diplomatico-mediatico – un ruolo di mediazione fra la Grecia e un nuovo Quartetto di fatto di “Lords of Euro”.



La notizia è dunque questa: cinque anni dopo il declassamento a junk del debito greco, la gestione dell’euro è passata apertamente a un direttorio ristretto e attentamente assortito. Lo presiede il governo tedesco (di larga coalizione, cioè un governo “della nazione”). E in occasione di questo “insediamento”: a) la collegialità democratica della Ue viene ridotta alla minima presenza “aggiunta” del tradizionale partner francese; b) l’indipendenza della Bce viene formalmente rispettata, ma nella misura in cui il suo presidente (italiano) è convocabile ad horas dalla cancelleria berlinese alla vigilia del consiglio mensile della Banca centrale; c) vengono tenuti aperti i canali di governance economica globale, attraverso il direttore generale (francese) del Fondo monetario. (In ogni caso: un tecnocrate non-Ue partecipa a una decisione Ue, esclusi invece quasi tutti i capi di governo della Ue). Quanto alla Commissione di Bruxelles, il suo ruolo oggettivo, in questo passaggio, appare quello di portavoce presso gli altri paesi-Membri delle decisioni decise-negoziate dal Quartetto.



La svolta “di costituzione materiale” resta il dato rilevante: certamente più politico-economico che finanziario, dopo una raffica di tornate elettorali “centrifughe” rispetto all’Unione europea (Gran Bretagna, Polonia, Spagna, non ultimo il voto locale italiano). Ma anche sul piano del contenuto dell’accordo, l’ennesimo pacchetto di condizioni economico-finanziarie imposte alla Grecia appare meno significativo della valutazione strettamente politica che, con tutta evidenza, il Quartetto ha concordato a prescindere dal pacchetto-accordo.

Niente Grexit. Almeno per ora. Ma non è una concessione ad Atene: appare invece una decisione presa “nell’interesse dell’euro”, nei fatti nell’interesse dell’Europa “del Quartetto”. Se l’angolazione non appare troppo astratta o paradossale, potrebbe perfino trattarsi di una decisione contro la Grecia: cui il club dell’euro nega – almeno per ora, almeno sul piano formale – il grado di libertà di uscire dall’eurozona, peraltro non previsto dai Trattati in vigore. Se Alexis Tsipras vuole riportare il suo Paese fuori dall’euro (poco importa se con il soccorso più o meno interessato dagli Stati Uniti, dalla Russia, dalla Cina) deve assumersi la responsabilità di un virtuale “colpo di Stato” europeo: di una secessione di cui ogni responsabilità, ogni rischio, ogni onere sarebbe solo di un Paese che ha deciso di violare lo “stato di legalità” in cui era liberamente entrato. 



Il governo greco (democraticamente eletto) può decidere quello che vuole: come domani anche altri governi europei, esprimendo l’orientamento dei rispettivi elettorati. Ma nessuno ha il diritto di mettere in discussione lo “stato di diritto” europeo. Chi vuole andarsene dopo esservi stato ammesso sbaglia, è colpa sua, mal gliene incolga.

Salvo colpi di scena, sarà questa – tutta o in parte – la nuova cornice politico-finanziaria dell’euro da stamattina. Forse i mercati ne saranno tranquillizzati nel breve periodo. Di certo il “pronunciamento di Berlino” è tutt’altro che distensivo per un Paese come l’Italia e per un governo come quello di Matteo Renzi, che ha assunto posizione dialettiche verso l’austerity europea.

Sabato il premier francese Manuel Valls era a Trento a duettare con Renzi al Festival dell’Economia. Ma le decisioni intanto maturavano a Berlino. E la loro quintessenza è: un Paese dell’Europa periferica resta nell’euro fino a che lo decide la Germania, sentita la Francia, avvertito il presidente della Bce e avendo il riguardo di tenere al corrente Washington (e Wall Street).

L’Italia – per ora concorrente industriale della Germania – non corre per questo rischi immediati di uscita dall’euro: ma solo perché non è conveniente per la Germania stessa. Ma le condizioni politico-economiche nella quale l’Italia pare destinata a sopravvivere saranno quelle che abbiamo conosciuto dal 2011 in poi: recessione meno-dieci dal 2008, ripresa zero-virgola-forse con disoccupazione galoppante (jobless, non Jobs-Act), politica di bilancio paralizzata, siostema bancario sotto schiaffo.

Forse adesso è più chiaro anche l’inatteso “allarmismo” pochi giorni fa lanciato dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan: “Se la Grecia esce, può accadere anche per altri paesi”. Forse non era tutto “allarme”: “Grexit” (“Brexit”, “Itexit”, ecc.) sono le prime giocate sul tavolo vero della ricostruzione (“distruzione creativa”) dell’eurozona. Ed è comprensibile l’infinito attendismo tedesco: che logora, classicamente, paesi che peso politico e forza economica non ce l’hanno (più).

(Ps: se qualcuno non ha seguito ieri sera a Ballarò il duetto fra il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, e il direttore emerito del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, lo cerchi sul sito Rai o su Youtube).

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