Pur non avendo radici così antiche, l’attuale “tragedia greca” le ha comunque profonde. La Grecia fu ammessa nel club della moneta unica praticamente nella prima ondata – nel 2000 – e quando l’euro iniziò a circolare materialmente fu subito anche nelle banche e nelle tasche dei greci. La non perfetta conformità dei fondamentali di Atene con i parametri di Maastricht era tuttavia oggetto di dibattito politico-finanziario corrente. Se verso l’Italia – forse – gli altri partner della Uem chiusero un occhio, con la Grecia li chiusero evidentemente entrambi: verosimilmente per ragioni di opportunità politica nei confronti di un Paese posto sulla frontiera geopolitica dell’Europa.
Gli uomini di governo che allora presero quella decisione (ad Atene, a Bruxelles, a Francoforte, ecc.) sono comunque oggi fuori scena: e questo è probabilmente un primo problema. E non è facile giudicare come la cancelleria tedesca gestì i suoi dubbi allora rispetto a come li ha gestiti dal 2001 a oggi. Certamente allora giunse alla fine a una scelta (affermativa) mentre la leadership tedesca attuale ha sempre dato l’impressione di minimizzare il problema, se non addirittura di ignorarlo o rimuoverlo dalla propria agenda politico-economica. Helmut Kohl – che non ha mai stimato la sua erede Angela Merkel – avrebbe comunque rivelato tale sorprendente mancanza di autorevolezza, con la scusa di non scontentare l’opinione pubblica interna? Sicuramente l’uomo che aveva abbattuto il Muro non ne avrebbe lasciato ricostruire un altro al confine greco.
Dall’altra parta della “barricata”, il nesso politica/economia è più leggibile: i governanti che hanno accompagnato la Grecia nell’ euro sapevano di non avere i numeri a posto, forse si sono perfino stupiti di vedere tanta benevolenza da chi aveva la fama di durezza (fama oggi ostentata). Ad Atene, ci sbaglieremo, ma si sono fatti prendere dalla “ubris” delle loro antiche tragedie: alla benevolenza hanno capito di poter aggiungere altro (la sorpresa di conti peggiori di quelli già inaccettabili sui quali si erano chiusi gli occhi a suo tempo, fra l’altro prima delle Olimpiadi 2004). E la sorpresa è stata amara anche per il popolo greco, che ha deciso di mandare a casa chi lo aveva ingannato e danneggiato, eleggendo una compagine che minimizzase per il Paese il ricordo con il passato (che tuttavia è e resta lo stesso problema della Germania del dopoguerra, dopo Weimar, il nazismo, la guerra). La scelta greca è stata comunque lineare: è parsa tradita anzitutto dall’inesperienza manifesta dei nuovi eletti e il tempo dirà se vi sono stati altri tradimenti, evidentemente più gravi.
Oltre alla cancelleria tedesca e al governo di Syriza c’è un terzo attore, centauro fra poltica e finanza globale: il Fondo monetario internazionale. Il Fmi, all’inizio della crisi greca, assume il suo tradizionale ruolo, intervenendo a sostegno di una situazione finanziaria che pone in crisi uno Stato, a favore del quale organizza il reperimento di risorse finanziarie e prepara la descrizione di un percorso di risanamento che va assieme alla concessione dei crediti. Oggi possiamo valutare l’utilità e attendibilità dei suggerimenti forniti dal Fmi assieme al suo aiuto finanziario soprattutto perché abbastanza bene seguiti dal Paese oggetto di forti critiche da parte dei “duri e puri” sopra ricordati.
Al momento della consulenza, la ricetta che la Grecia ha dovuto seguire avrebbe dovuto produrre qualche difficoltà di breve alla crescita del Pil locale (circa un 2% di perdita totale), con un pronto rientro successivo, avicinando il paese a quell’equilibrio che avrebbe garantito la capacità di restituire I crediti concessi. Ex post, definire il risultato prodotto brutale è un triste eufemismo (triste per i danni incomensurabili prodotti al Paese). Solo pochi numeri: almeno il 25% di Pil perso, disoccupazione giovanile oltre il 50% (non si ricorda mai che tale numero va letto al netto degli emigrati, giovani, che spesso non torneranno, e l’equilibrio demografico del Paese sconvolto, con le relative conseguenze).
Questo premesso, il vice presidente della Bce per circa 8 anni è stato Lucas Papademos, un governatore della Banca centrale greca, poi premier tecnico ad Atene prima di Tsipras. Il Fmi, d’altra parte, è un trampolino di lancio per le presidenziali francesi: per candidature spezzate (Dominique Strauss-Khan, l’uomo che del resto aveva fatto maquillage all’economia francese verso l’euro) o per possibili candidature rosa come quella dell’attuale direttore generale Christine Lagarde. E che dire di una situazione che rimane controversa: i micidiali derivati negoziati dal governo greco con Goldman Sachs erano sotto la responsabilità formale dell’allora vicepresidente per l’Europa, Mario Draghi?
È chiaro perché la rabbia (calcolata) del premier greco giochi su quella sfiduciata di un Paese verso le cosiddette “istituzioni”. Fra conflitti d’interesse, ambizioni personali, dominanza egemone dei mercati finanziari e – non ulttima – estrema complessità di funzionamento delle democrazie, la preoccupazione che sta vivendo il cittadino europeo (greco, tedesco, italiano…) richiama fortemente una famosa (e purtroppo corretta) valutazione dello storico Carlo Maria Cipolla: tutte le comunità sono popolate dalle stesse proporzioni di soggetti dotati e di soggetti meno dotati, la differenza tra le comunità è data dalla loro capacità di esprimere una guida scelta tra gli elementi più dotati, non tra i meno.