Partiamo da un assunto ipotetico: l’accordo con la Grecia, dopo tante nuove emozioni e colpi di scena, si farà. Magari imperfetto, ben lontano dalla strong determination invocata da Mario Draghi. Ma si farà. Una volta tanto rifiutiamo, facendo gli scongiuri, l’allarme di Paul Krugman che fa un sinistro parallelo tra Sarajevo 1914 e Atene 2015. Angela Merkel, nonostante la pessima immagine di cui gode tra i vari populismi europei, non assomiglia affatto al kaiser Guglielmo. Dall’altra parte, è ormai evidente che il continuo annuncio da parte greca di una soluzione imminente nei negoziati in corso con i creditori fa parte della tattica ellenica. Tutto è pronto, viene detto da mesi. In questo modo, a livello quasi subliminale, la Grecia cerca di spiazzare gli interlocutori e di far passare l’idea che i cattivi sono gli altri.



Ma quali lezioni si possono trarre dall’ennesima, interminabile trattativa, sempre più simile alla tela di Penelope? E come interpretare le indicazioni dei mercati sui tassi e sull’euro? Per quanto riguarda le Borse la risposta è facile: nel caso di happy end saranno loro a trarne il beneficio maggiore. Ma come interpretare il balzo in avanti dell’euro e dei tassi di interesse tedeschi? Fino a che punto i mercati saranno in grado di reggere allo stress? Ultima domanda, ben più importante: le tensioni politiche e finanziarie possono vanificare i risultati del Quantitative easing proprio ora che stanno arrivando i primi frutti?



Proviamo a interrogare, con tutti i limiti del caso, la sfera di cristallo partendo da alcuni dati di fatto. Tanto per cominciare, comunque finisca la partita, la crisi greca ha dimostrato ancora una volta la debolezza strutturale dell’Unione europea. La minaccia, credibile, del Grexit ha confermato che la moneta unica resta un accordo tra governi, non tra Stati, simile al “peg” con il dollaro di alcune economie asiatiche e sudamericane. Qualcosa che potrebbe rompersi come andò in frantumi la parità tra dollaro e austral argentino meno di vent’anni fa: per uscire dall’euro, è il segnale sinistro, bastano un decreto nel cuore della notte e una rotativa che stampi nuove banconote.



La moneta unica, del resto, è oggi out of love in buona parte dell’Unione. In realtà, come dimostrano i sondaggi greci, i benefici dell’euro sono ormai ben compresi dalla maggioranza dei cittadini. Ma la valuta rischia anche di pagare il prezzo della disaffezione dei cittadini verso 19 governi sempre più instabili e sottoposti al fuoco di fila di Podemos, del nazionalismo rampante nell’est del continente, del lepenismo piuttosto che dell’ostilità di M5S e Lega Nord in Italia. È una comunità ingessata, che ha bisogno di urgente revisione di regole e di obiettivi. Oltre che, come ha sottolineato Draghi, di una cultura condivisa in materia di flessibilità, materia che non riguarda solo le regole del lavoro. 

Nel frattempo, le circostanze suggeriscono che, superata l’emergenza, l’euro non abbia margini per superare stabilmente quota 1,15 sul dollaro, ma che, al contrario, sia probabile che la moneta possa arretrare di nuovo. Meglio, insomma, fare adesso il pieno di valuta Usa per le prossime vacanze shopping a New York o per una puntata a Miami. Chi invece non vuole (o, più facile, non può) concedersi la meritata sosta, si appresti a sfruttare, con le azioni e i bond, il possibile rally delle azioni stimolate dalla ripresa dell’export, nel caso la moneta europea torni ad avvicinarsi al dollaro, una volta rientrate quelle “motivazioni tecniche” citate da Draghi per spiegare (assieme al rilancio dell’economia e alla ripresa dell’inflazione) l’impennata dei tassi tedeschi e, di riflesso, della moneta.

Quali sono le “motivazioni tecniche”? Nei mesi scorsi i grandi operatori anglosassoni (ma anche giapponesi ed europei) hanno approfittato della liquidità in euro iniettata dal Qe nella finanza del Vecchio continente procedendo a un forte indebitamento nella valuta comune. Niente di meglio, insomma, che indebitarsi a costo quasi zero (o addirittura sotto zero in Nord Europa) per investire in asset più solidi in giro per il mondo, secondo un copione, quello del carry trade, già sperimentato in Usa e Giappone. Oggi, il fenomeno sembra in via di esaurimento. Anzi, si è innescato il trend opposto: la Bce continua a comprare al ritmo di 60 miliardi al mese (anche di più a giugno), ma i bonds scendono, segno che gli investitori stanno abbandonando il mercato obbligazionario europeo, restituendo i prestiti nella valuta Ue e così favorendo la salita dell’euro. 

È il segnale che, come ha detto Draghi, “il Qe sta funzionando”, in quanto spinge masse monetarie fuori dai bonds verso altri lidi, siano essi credito, azionario, immobiliare, investimenti produttivi, o fuori l’area europea. Com’è bene che accada perché la ripresa dell’economia, in una congiuntura economica globale che resta debole, non può permettersi un euro troppo forte. 

A partire dall’Italia: finita la stagione del costo del denaro quasi a zero lo Stato e le aziende devono attrezzarsi per una stagione in cui il credito, più abbondante, sarà comunque più caro, sostenibile solo se le imprese torneranno a produrre profitti. Le cose, insomma, vanno meglio, ma l’economia italiana, finita la lunga degenza, deve dimostrare di poter camminare da sola. 

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