Consoliamoci: viviamo un’epoca interessante. Magari turbolenta, ma senz’altro non corriamo il rischio di annoiarci. Il no dei greci al referendum del 5 luglio ha rappresentato, anche dal punto di vista simbolico, il punto di rottura di equilibri ormai logorati, anche dalla tattica adottata da Atene: il continuo annuncio da parte greca di una soluzione imminente nei negoziati in corso con i creditori, ripetuto e poi smentito con il risultato di spiazzare, a livello quasi subliminale, gli interlocutori e di far passare l’idea che i cattivi sono gli altri. Una tattica che ha pagato sia a livello elettorale, come dimostra la massiccia adesione dell’elettorato ellenico alla chiamata di Alexis Tsipras, sia con la simpatia raccolta tra i populisti di destra e di sinistra, forze che ormai possono ambire alla leadership in più Paesi dell’Unione europea.
L’esito delle urne greche lancia una pesante ipoteca su quel che potrà accadere in Spagna e in Portogallo, che tra pochi mesi dovranno affrontare le elezioni politiche. Non meno rilevanti le ripercussioni psicologiche nel Regno Unito, ove cresce la tentazione del Brexit. Ma nessuno è immune. L’improvviso attivismo della Francia, la più energica nel chiedere una pronta riapertura di una linea di credito verso Atene, dimostra che François Hollande ha ben chiaro che ogni giorno di crisi porta acqua al mulino del Front National. Soffre anche Angela Merkel, già alle prese con un’emorragia costante del consenso dei parlamentari del suo partito.
L’andamento delle Borse lascia prevedere che, finalmente, il dramma greco in qualche maniera troverà una soluzione nel weekend. Comunque vada a finire, la Grecia avrà in prestito i capitali sufficienti per non far deflagrare l’economia dei suoi creditori. Per il resto, tocca ad Atene decidere se sottoporsi a un salvataggio in extremis o scegliere di allentare i legami con l’area euro, magari procedendo alla creazione di una valuta da utilizzare solo all’interno. È un passaggio decisivo, ma solo per i greci: tocca a loro decidere, da soli, se ripartire o se condannarsi a una povertà che potrebbe durare non pochi anni.
Per il resto, comunque si chiuderà la partita greca, l’impatto sul futuro dell’euro è destinato a esser profondo. Certo, non mancheranno nuovi attestati di fiducia sulla solidità dell’euro. Il che suona, nonostante la straordinaria efficacia del lavoro di Mario Draghi, come una conferma della debolezza della valuta unica. Nessuno, d’altro canto, osa mettere in discussione la solidità del dollaro dopo una dichiarazione di default di Portorico, così com’è avvenuto in anni recenti per la bancarotta di Detroit o il default della California. Al contrario, l’euro è l’unica valuta al mondo di cui si sente il bisogno di riaffermare ogni giorno la sua irreversibilità.
“L’euro è stressante – ha scritto Alessandro Fugnoli -, è una continua esperienza di quasi morte seguita da resurrezione. In un portafoglio costruito su Marte sarebbe perfetto come elemento satellite, in cui entrare e da cui uscire, di un nucleo duro fatto di dollari e renminbi”. Difficile che le reazioni al dramma di Atene possano favorire un cambio di rotta o tantomeno accelerare le riforme suggerite da Il Piano dei Cinque Presidenti, ispirato soprattutto da Mario Draghi alla vigilia della fase più acuta della crisi, che va nella direzione dell’irreversibilità dell’euro e di Eurolandia attraverso la creazione di una tesoreria unica federale e l’avvio di elementi di politica fiscale comune. Non solo gli umori dell’elettorato non vanno in quella direzione, ma il progetto ha tempi lunghissimi.
Nulla, in ogni caso, verrà toccato prima delle elezioni francesi del 2017. Difficile che questa prospettiva possa ribaltare il circolo vizioso che genera sfiducia, frena gli investimenti e comprime la crescita della produttività. Si entra così in una strana area grigia: la crisi greca ha da un lato offerto l’occasione per testare l’efficacia dell’arsenale delle armi finanziarie apprestate da Mario Draghi per respingere eventuali attacchi alla moneta comune, ma ha anche reso evidenti le distanze culturali abissali che rendono difficile la costruzione europea.
La Comunità è figlia della prodigiosa cultura burocratica tedesca maturata nel XIX secolo sull’onda della creazione della Posta che, secondo l’antropologo anarchico David Graebner, è stata la madre dello stato-nazione germanico. Nel 1867 l’impero rilevò la società cresciuta all’ombra della famiglia Thurm un Taxis (di origine bergamasca). Nei vent’anni successivi, a mano a mano che nasceva la moderna Germania, il servizio postale si estese con burocratica efficienza a tutto il Paese: una sorte di Lego che prevedeva da 3 a 9 consegne quotidiane nelle principali città con chilometri di tubi pneumatici sotterranei che collegavano in tempi quasi reali ogni angolo di Berlino. Un sistema che impressionò a tal punto Lenin a considerare la Posta tedesca come il prototipo dell’azienda socialista. Ma che impressionò pure Mark Twain o altri osservatori. È su questo modello che è cresciuta la Germania. Ed è il principio su cui si è fondata la gestione dell’Europa, tra interminabili direttive e milioni di regolamenti del tutto ragionevoli per i tedeschi. Assolutamente alieni per i latini, che ormai vedono Bruxelles come un’antagonista, non come la propria capitale. E così si rischia di procedere, senza la forza di individuare un terreno comune che vada al di là delle regole più o meno stringenti.
L’Europa, nel momento dell’emergenza, è incapace di tradurre in azione politica ed economica la sua massa critica. Se l’Unione europea sopravvivrà agli stress di questi mesi (non solo Grecia, ma anche Ucraina e la polveriera del Medio Oriente) lo si dovrà, come ha anticipato Romano Prodi, all’azione comune degli Usa e della Cina, preoccupate dal vuoto politico che si potrebbe aprire con il tracollo della Comunità. Ma questo, come sempre, avrà un prezzo. Politico ed economico.
Lo stallo europeo impedisce al Vecchio Continente di prendere, per tempo, decisioni urgenti e necessarie sul proprio futuro. In questi anni l’Ue, condizionata dal surplus commerciale e dall’austerità nella spesa per investimenti della Germania, ha basato le sue prospettive di crescita solo sull’export. Una formula che segna il passo ora che i grandi Paesi produttori di materie prime, vedi il Brasile, sono in profonda crisi e altri, come la Cina, stanno avviando una metamorfosi da paese-fabbrica a economia basata sui servizi, dotata di una finanza moderna e trasparente. Impresa difficile e irta di ostacoli, come dimostra il crollo della Borsa di Shanghai, frutto di un rialzo gestito tecnicamente molto male dalle autorità cinesi, ma anche figlio delle migliori intenzioni di riforma.
Vedremo nei prossimi giorni se l’intervento drastico, di sicuro illiberale, sul mercato da parte delle autorità, avrà fatto rientrare o meno la grande paura. Ma la sensazione è che il futuro del mondo, anche per quel che riguarda la parte euroasiatica, oggi si giochi su ben altri campi di gioco, rispetto alle istituzioni europee. Ove, tra l’altro, se si eccettua la grande opera di Mario Draghi, l’Italia è sempre meno presente.