La riunione che dovrebbe essere decisiva per la permanenza della Grecia nell’euro comincia sotto la cappa oscura della sfiducia. Nessuno si fida del bizantino Alexis Tsipras, troppe capriole. Ha avuto un’ampia maggioranza, ma si può credere al parlamento di Atene? Non parliamo di Syriza: l’ala radicale della sinistra radicale minaccia di affossare nei fatti qualsiasi intesa. A parlar chiaro è stato Wolfgang Schäuble: “Non vedo come potremo raggiungere facilmente un accordo, il governo greco ha fatto di tutto per minare la fiducia”, ha dichiarato il ministro delle Finanze tedesco. Le ultime proposte greche ricalcano quelle precedenti con qualche aggiustamento, ma allora dovevano servire per un prestito ponte di 7 miliardi, adesso per un terzo salvataggio da 70 miliardi di euro (compreso il contributo del Fmi).



È solo l’ultimo casus belli. Perché la diffidenza nasce da lontano. Si sa che i tedeschi non si sono mai fidati dei greci. E per la verità nemmeno dell’Italia. Con gli spagnoli è diverso perché sono sempre stati loro alleati fino alla Prima guerra mondiale, non hanno mai fatto concorrenza (al contrario degli italiani protagonisti oltre tutto di voltafaccia e giri di valzer che restano scolpiti nella memoria storica della Germania) e sono vincolati da legami strutturali forti soprattutto nell’industria.



Dunque, il vertice straordinario dell’Unione europea, dal quale oggi deve uscire un compromesso se no uscirà la Grecia, è segnato dalla storia, dalla politica, dalla psicologia collettiva, non solo dai numeri o dagli interessi economici in senso stretto, per questo è ancor più difficile.

Schaüble ha svelato le sue carte, proponendo un’uscita temporanea (per cinque anni almeno) dall’euro. “Non si può, è legalmente infattibile, senza senso economico e non in linea con la realtà politica”, secondo fonti di Bruxelles. Ma soprattutto cambia la natura del patto, è una bomba che può far deflagrare la moneta unica o, nel migliore dei casi trasformarla in un rapporto di cambio flessibile, una sorta di sistema monetario europeo rafforzato, un ritorno a prima di Maastricht. Eppure i tedeschi hanno svelato quello che molti altri pensano, non solo tra i luterani del nord, anche tra quelli del sud che hanno fatto sacrifici e non possono rinnegarli.



Lo scontro è durissimo. E non risparmia nessuno, nemmeno Angela Merkel che combatte su due fronti: da un lato, gli intransigenti al suo interno (socialdemocratici compresi) che hanno il consenso ampio dell’opinione pubblica e, dall’altro, le giravolte di Tsipras. Ha riaperto il canale preferenziale con la Francia dove François Hollande interpreta la parte dello zio severo, ma buono, mediatore senza calare le braghe, in ogni caso dialogante con la Grecia così come fa il commissario francese Pierre Moscovici in aperto contrasto con l’olandese Jeroen Dijsselbloem, nonostante facciano entrambi parte della “famiglia socialista”.

Jean-Claude Juncker è apparso non in palla, smarrito, sballottato. Christine Lagarde ondivaga: un giorno intransigente, un altro disponibile a rinegoziare il debito. La sua presenza viene vista con fastidio da molti governi non escluso quello tedesco e quello finlandese che di ridiscutere il debito non vogliono sentirne parlare.

E l’Italia? Matteo Renzi è rimasto fuori dai giochi. Un po’ per scelta un po’ per necessità. La tesi di Pier Carlo Padoan è che siamo troppo fragili, quindi è meglio tenere giù la testa. Ma il capo del governo ha fatto di più, è volato a Berlino per baciare la pantofola. Un gesto inopportuno? L’Italia non poteva dare spago ai gruppettari confusi e pasticcioni di Atene, sostenuti dalla brigata Kalimera (l’estrema sinistra), da Beppe Grillo, da Renato Brunetta, da Matteo Salvini, insomma, da tutti i nemici giurati del governo. Renzi, così, si è fatto guidare da Draghi. E non da adesso.

La svolta risale a un anno fa esattamente al 13 agosto quando il capo del governo ha incontrato il presidente della Bce nella casa di campagna di quest’ultimo vicino a Città della Pieve. Tra i due non c’era feeling e forse ancor oggi la chimica personale è scarsa, ma fatto sta che da allora Renzi ha accelerato sulle riforme cominciando dal Jobs Act e ha seguito in Europa una linea di basso profilo, al di là delle battute e delle sceneggiate mediatiche. La riprova non sta tanto nei memorandum della diplomazia economica, ma nel documento chiave che caratterizza il rapporto con l’Ue, cioè la Legge di stabilità. Accettato il limite del 3% nel rapporto deficit/Pil e coperto il bonus degli 80 euro, Renzi e Padoan hanno fatto il minimo indispensabile, aspettando di spiegare le vele al vento del Quantitative easing prima e della congiuntura poi. La politica monetaria ha funzionato, ma la ripresa si è rivelata una ripresina. La tentazione per il 2016 è ripetere lo stesso copione, anche se ci vorrà altro (basti pensare che a bocce ferme bisogna già trovare 20 miliardi) e il piccolo cabotaggio non basta più.

Sul negoziato in corso, c’è la netta sensazione che Renzi abbia accettato l’idea tedesca di una Grexit temporanea e governata (dalla Bce). Un cambiamento radicale che un domani potrebbe tornare utile anche all’Italia. Ma non si è mai capito se Renzi ha o no una politica europea. Parla di “Europa casa dello sviluppo”: cosa vuol dire in concreto? Un fondo europeo per gli investimenti? Una politica espansiva della Germania che con il suo avanzo estero pari a 7 punti di Pil viola ogni accordo europeo? Giulio Tremonti propose, insieme a Juncker, gli Eurobond. Venne sconfitto, ma l’idea resta valida e prima o poi andrà ripresa, Grexit o non Grexit. Mario Monti si è battuto per escludere gli investimenti dal patto di stabilità e per non considerare l’impatto della recessione, aprendo uno spiraglio di flessibilità alla politica fiscale nazionale. Poi il silenzio.

Qualcosa da dire in realtà ci sarebbe stato. Un Paese che sta facendo le riforme, come Renzi giustamente ricorda a ogni piè sospinto, potrebbe avere la credibilità per proporre un intervento strutturale sui debiti, la pesante zavorra che blocca l’intera Unione. Non è solo una questione di rapporto con il prodotto lordo, ma anche un problema in termini assoluti. È vero, la Germania può finanziare i suoi duemila miliardi di debito a tasso zero, ma sono pur sempre duemila miliardi da pescare sul mercato, un flusso che spiazza i duemila miliardi che gli italiani debbono collocare con rendimenti più elevati (e quindi costi maggiori per la finanza pubblica tricolore). E cosa succederebbe alla Francia con i suoi 1.600 miliardi senza lo scudo tedesco? Quanto alla Spagna che ha avuto un balzo record, quasi quaranta punti di Pil, rispetto a prima della crisi?

L’Ue non è una federazione, quindi non può mettere insieme tutti i debiti dei singoli stati in un solo calderone. Del resto, non avviene nemmeno negli Stati Uniti. Ma è assurdo che i paesi che condividono la moneta non siano in grado di avere una strategia comune per gestire e ridurre il fardello debitorio. Di questa strategia, la buona e sana finanza è una condizione necessaria, ma non sufficiente. Ogni Stato deve farsi carico dei propri costi, ma una quota (per esempio il 60% considerato dal trattato di Maastricht come debito sostenibile per tutti) può essere gestita emettendo titoli europei. Il resto può essere gestito con un mercato speciale come i municipal bond americani riservati ai cittadini di ogni singolo Stato o città (quindi al riparo dalla speculazione) ed esentasse.

È il momento di porre la questione all’ordine del giorno. E l’Italia, per il livello del proprio indebitamento e perché ha accettato la via del rigore e delle riforme, potrebbe avanzare una proposta. Renzi lo vuole? Ha accanto a sé personalità di spessore e prestigio europeo? Quanto a lungo può navigare con il pilota automatico il cui cervello elettronico sta a Francoforte?

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