Della lunga notte dell’Eurosummit, il premer italiano Matteo Renzi si è attribuito apertamente un solo passaggio: l’aver incalzato l’Ue-19 a mantenere ad Atene il super-fondo destinato a raggruppare gli asset pubblici greci (soprattutto infrastrutturali) che verranno posti a garanzia del piano di aiuti da 86 miliardi a fisco e banche. Non è affatto sorprendente che Renzi si sia preoccupato di non vedere “pignorato” addirittura fuori confine (in Lussemburgo) quello che resta del patrimonio statale di Atene.
Creato in forma di “lista di privatizzazione”, il fondo chiesto da creditori e inserito nell’accordo con il governo ellenico non è troppo dissimile – almeno nello schema sostanziale – dal fondo taglia-debito su cui in Italia si congettura da almeno un paio d’anni. Fra Roma e Milano, fra Parlamento, giornali e università lo spunto non cambia: raggruppare beni pubblici (come minimo quelli immobiliari, come massimo anche quote azionarie di aziende statali e municipali) e metterli al servizio di operazioni di riduzione/stabilizzazione del debito.
A differenza della Grecia, l’Italia conta per ora di poter decidere su tempi e modi di una manovra che rimane ancora eventuale. Ma il debito italiano rimane il più alto nell’eurozona dopo quello greco; e guarda caso Renzi ha mostrato grande ed esplicito allerta sulla possibilità dell’Europa di disporre di beni dei singoli Stati nazionali in funzione di rifinanziamento/abbattimento d’emergenza del debito. Non sarebbe tuttavia la prima volta che l’Italia si ritroverebbe a garantire con propri beni richieste di credito all’Europa.
Il caso più éclatante è ormai lontano, ma non per questo poco significativo. Nel 1974, all’indomani dello choc petrolifero, l’Italia con la sua lira e il suo debito pubblico si ritrovano nella tempesta. Il Governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, vola in Germania e negozia con la Bundesbank un prestito da due miliardi di di dollari (1.300 miliardi di lire) denominato in marchi. Il finanziamento (siglato politicamente in un summit fra il premier italiano Mariano Rumor e il cancelliere Helmut Schmidt) viene garantito da Roma con un quinto delle riserve d’oro di Via Nazionale, tradizionalmente consistenti e favorite sul mercato dalla fine della convertibilità aurea del dollaro. Il debito (che assomoglia molto a un “pronti contro termine” in oro) viene estinto due anni dopo e in parte sostituito da una linea di credito negoziata con il Fondo monetario internazionale.
Gli anni ’80 tolgonoo l’Italia dal novero dei paesi diretti debitori di altri paesi e la inseriscono fra quelli che invece godono di credito crescente sul mercato internazionale dei capitali privati, in gran sviluppo. Ma proprio all’indomani dei Trattati di Maastricht (fine 1991) un attacco speculativo alla lira – inutilmente difesa dalla Banca d’Italia di Carlo Azeglio Ciampi, con dispendio di riserve valutarie – obbliga l’Italia a una svalutazione interna alla banda dei cambi semifissi pre-euro. Nei fatti è tuttavia un altro il costo sostenuto dal Paese per restare agganciato al treno europeo in marcia verso l’unione monetaria: una massiccia e accelerata campagna di privatizzazioni.
Essa viene spesso fatta risalire al famoso party organizzato da Goldman Sachs sul “Britannia” per consentire al Tesoro italiano di presentare i suoi “gioielli” (da Credit, Comit, Imi all’Ina, a Telecom, Autostrade, Eni ed Enel). Di certo le grandi privatizzazioni italiane non sarebbero state così serrate, se alla fine del 1993 l’Italia non avesse dovuto chiudere con la commissione di Bruxelles un difficile contenzioso finanziario. Il commissario alla concorrenza Karel van Miert contesta al governo italiano il pagamento dei debiti dell’Efim, il più disastrato dei carrozzoni della Prima Repubblica. A Roma (rappresentata da Beniamino Andreatta, ministro degli Esteri del governo tecnico Ciampi, mentre infuria Tangentopoli) viene infine imposta la riduzione e normalizzazione dei debiti di Iri, Eni ed Enel. Ed è soprattutto l’Iri (guidata a più riprese da Romano Prodi fin dal 1982) a trovarsi zavorrata da debiti insostentibili.
Una dopo l’altra prendono quindi la via dell’Opv sul mercato Credit, Comit, Telecom e Autostrade: tutte vendute con rinuncia al premio di maggioranza (condotta molto criticata dalla Corte dei Conti in un bilancio del 2010). E per Telecom comincia il declino aziendale segnato quasi subito dall’Opa-spoliazione lanciata da Wall Street utilizzando la “razza padana” come veicolo.
È davvero siderale e rassicurante la distanza fra quell’Italia e questa Grecia? Fra quella Ue e questa? Se Renzi due notti si è preoccupato del super-fondo di garanzia ellenico non ha avuto tutti i torti.