Partiamo da un dato di fatto: certo, le banche greche sono insolventi – lo si sa fin dal primo salvataggio del 2010 -, ma almeno lo Stato ne aveva il controllo finale. Poteva sovraintendere a fusioni, ricapitalizzazioni, iniezioni di capitale, fino all’ipotesi estrema del bail-in nei confronti dei correntisti. Da oggi, sempre che Atene non decida di rompere, non sarà più così. Atene potrà ancora mantenere alcune forme di controllo sui capitali, come il limite di 60 euro per i prelievi ai bancomat, ma per il resto le banche greche saranno sotto il controllo della Bce. Una delle precondizioni dell’accordo, infatti, prevede che saranno l’Eurotower e in subordine Bruxelles ad avere il potere di identificare, chiudere o parcellizzare le banche insolventi. E una fonte europea citata dalla Reuters ha già ventilato il fatto che delle quattro principali banche del Paese – National Bank, Piraeus, Eurobank e Alpha – potrebbero restarne solo due.
Insomma, la questione finora fondamentale dei fondi Ela per le banche, con il rischio di haircut dovuti all’aumento di richiesta di collaterale, diventa un non argomento, visto che tutte le cosiddette “unsecured liabilities”, qualcosa come circa 120 miliardi di euro, passano chiavi in mano sotto la gestione della Bce. E con la sottocapitalizzazione delle banche elleniche a quota 25 miliardi – ma c’è chi parla di oltre 60 – è abbastanza palese che, al netto di sofferenze quasi al 50% del totale dopo sei anni di depressione totale, la Bce potrebbe arrivare a compiere un’operazione in stile cipriota, ovvero un prelievo forzoso overnight dai conti correnti in onore della legge del bail-in, ratificata dai Parlamenti e, quindi, di fatto legge europea che conta più di quelle nazionali.
Insomma, il nodo sostanziale è questo. C’è poi il nodo meramente politico, quello legato all’imposizione della legge tedesca su tutto il continente. In tal senso è interessante andare a rileggere parti del libro di memorie dell’ex segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, intitolato “Stress test” e pubblicato lo scorso anno. All’epoca della sua uscita, nel nostro Paese tutti si focalizzarono giustamente sulle pagine in cui Geithner di fatto avvalorava la tesi di Berlusconi rispetto al “golpe” compiuto contro il suo governo in sede europea, ma alla luce dell’accaduto di domenica scorsa è Wolfgang Schauble l’uomo che Geithner riteneva da sempre il vero metronomo della situazione. Ecco cosa scriveva Geithner al riguardo: «Pochi giorni dopo (era la fine di luglio 2012, ndr), volai per incontrare Wolfgang Schauble a pranzo durante la sua vacanza in un resort a Sylt, un’isola del Mare del Nord nota come la Martha’s Vineyard di Germania. Schauble fu gentile, ma lasciai Sylt sentendomi più spaventato che mai. Mi disse che erano in molti in Europa a pensare che cacciare fuori la Grecia dall’eurozona era ancora una plausibile – e anche desiderabile – strategia. L’idea era quella di cacciare fuori Atene, così che la Germania sarebbe stata facilitata nell’offrire supporto finanziario all’Eurozona se necessario, visto che la popolazione tedesca non avrebbe più percepito questo come un salvataggio per i greci, ma un aiuto per l’Europa. Allo stesso tempo, un Grexit sarebbe stato abbastanza traumatico da spaventare il resto dell’Europa e convincerlo a cedere più sovranità e avviarsi verso una più forte unione fiscale e bancaria. L’argomento era chiaro, lasciar bruciare la Grecia per rendere più semplice costruire un’Europa più forte e con difese più credibili».
Geithner scrive di aver trovato l’argomentazione «terrificante, tanto più che lasciar uscire la Grecia potrebbe creare una spettacolare crisi di fiducia, a prescindere da quanto gli europei avrebbero potuto fare dopo». Proprio sicuri che la “cura Schauble” sarebbe stata un errore drammatico? Me lo sto chiedendo dopo aver letto l’ultimo articolo di Ambrose Evans-Pritchard, notista economico del Daily Telegraph, keynesiano e notoriamente nemico giurato dell’austerity tedesca, il quale però ha definito la proposta del ministro delle Finanze di Berlino di far uscire la Grecia per cinque anni dall’euro per rimettersi in sesto, «la soluzione giusta per Atene».
Ecco cosa scrive: «Seppur sbagliando i modi e proponendola quasi in forma di diktat, l’unico politico europeo che ha offerto una via d’uscita dall’impasse alla Grecia è stato Wolfgang Schauble. Il suo piano per un ritiro “di velluto” per 5 anni dall’eurozona – un eufemismo, visto che lui probabilmente pensava davvero al Grexit – con un piano di aiuti umanitari, una riduzione del debito in stile Club di Parigi e un pacchetto di misure per la crescita potrebbero permettere alla Grecia di recuperare competitività con la dracma in maniera ordinata. Una formula simile implicherebbe l’intervento della Bce per stabilizzare la dracma ed evitare sia apprezzamenti eccessivi che spirali svalutative. Sarebbe stata certamente meglio questa ricetta dell’atroce documento che Tsipras ha dovuto accettare e portare ad Atene».
Come vi dicevo nell’articolo di ieri, lo scontro vero è stato tra Bce e Germania. Non a caso, nei giorni precedenti allo showdown, il capo della Bundesbank, Jens Weidmann, attaccò duramente l’eccessivo interventismo di Draghi nella questione greca, ricordando che la Bce ha dei limiti e che gli sviluppi del caso ellenico riguardavano il governo di Atene e quelli degli altri Paesi creditori, non il board della Banca centrale. Non sarebbe quindi il caso di spostare un po’ più in alto l’asticella della discussione, ovvero mettersi a un tavolo e decidere seriamente che Europa vogliamo, al netto del caso greco e del suo epilogo?
Non faccio mistero di aver tifato Schauble in questa ultima disputa, ma questo non significa che io non ricordi la storia, ovvero il fatto che come ci mostra il primo grafico a fondo pagina, la Germania abbia costruito le sue fortune economiche inondando di prestiti a basso costo le economie della periferia dell’eurozona, affinché queste potessero acquistare prodotti tedeschi, armando il bazooka dell’export. E, guarda caso, la gran parte degli oltre 800 miliardi di euro prestiti dalla Germania alle altre nazioni, fu erogata prima della crisi del 2008. E come ci mostra il secondo grafico, il fatto che le Net Claims sul programma Target2 non facessero immediatamente riverberare a livello visuale l’aumento del rischio è dovuto al fatto che i surplus di conto corrente durante la metà della scorsa decade subivano un offset proprio dalle fughe di capitali, ovvero da quei prestiti che la Germania erogava per far aumentare l’export netto nel suo conto corrente. Più o meno quanto fatto dalle banche Usa con i mutui subprime, i quali aumentarono a dismisura fino a diventare la radice del problema nel 2008, mentre il conto di questa politica aggressiva e rischiosa della Germania lo stiamo pagando ancora oggi a colpi di debito e spread della periferia dell’Ue.
Il dato di fatto, a mio modo di vedere, è che la Germania negli anni seguenti all’introduzione dell’euro ha agito senza scrupolo per far aumentare il suo Pil attraverso prestiti rischiosi e ora che quegli stessi prestiti stanno facendo default, la strategia di Berlino è unicamente quella di dare la colpa a chi ha accettato quel denaro, senza addossarsi nemmeno un minimo di colpa per il suo atteggiamento irresponsabile di erogazione. E non è stata solo la Grecia a ricevere quei prestiti (al netto dei magheggi contabili di Atene e della disfunzionalità strutturale del suo sistema economico), ma anche Italia, Spagna, Francia, Portogallo e Irlanda: non è forse il caso di sedersi a un tavolo e far presente a Berlino i suoi errori, molto lucrosi a livello di crescita economica e chiedere anche a Schauble e soci un mea culpa per poter ripartire davvero?
Esiste un politico europeo in grado di sollevare il problema e alzare la voce? Nell’attesa di una riposta, vi segnalo che ieri la Grecia ha pagato i 160 milioni di euro legati al “samurai bond” del 1995 andato in scadenza: sintomo chiaro che il Fmi puoi anche non ripagarlo, ma sul mercato di capitali, una mancanza avrebbe significato crollo totale della fiducia ed evento di credito. Ovvero, default con probabile attivazione dei cds. I greci sanno con chi possono fare i furbi e con chi no. E sanno che tra cinque giorni i 3,5 miliardi dovuti alla Bce dovranno essere pagati, altrimenti addio a ogni piano di salvataggio.
Grazie alla politica suicida e ideologica del duo Tsipras&Varoufakis, questa volta Atene è davvero con le spalle al muro.