Et voilà, il Fmi è ufficialmente entrato in gioco nella questione greca – di fatto vanificando potenzialmente anche il voto del Parlamento ellenico di ieri – e non l’ha certo fatto in maniera consona, visto che ha usato l’italianissima abitudine delle indiscrezioni di stampa riguardo un documento segreto. Tanto segreto, che da ieri è pubblico. Ma di questo parleremo dopo, perché l’atteggiamento di Christine Lagarde a mio modo di vedere sottende la più classica delle agende nascoste.
Partiamo da un paio notizie dalla terra dei pazzi, ovvero quella Grecia dove tutto può succedere. Ieri vi davo conto del fatto che Atene aveva ripagato l’outstanding del “samurai bond” emesso in yen nel 1995, in totale circa 94,5 milioni di dollari. Il problema è un altro e ce lo mostra il primo grafico a fondo pagina, ovvero che il mercato nelle 24 ore precedenti alla scadenza prezzava al 50% le possibilità di pagamento, infatti lunedì l’ultimo trade dell’obbligazione era a 58.50. Ecco invece che il giorno dopo la note è andata in maturazione alla pari, ripagata in pieno e garantendo un return del 71% overnight. Insomma, altro che lo short sull’euro di Goldman Sachs, detenere quel “samurai bond” era il vero affare del 2015. Ora invece guardate il secondo grafico, il quale ci conferma come non solo le banche elleniche abbiano patito la peggior fuga di capitali di sempre, ma che le sofferenze sono ben oltre il livello d’allarme, dato che i cittadini a causa della crisi sempre peggiore hanno smesso di effettuare pagamenti, in linea con la filosofia del proprio governo.
La situazione quindi è quella di un sistema bancario con poco meno di 210 miliardi di prestiti (esigibili e non), circa 120 miliardi in depositi e con 89 miliardi di euro di fondi Ela della Bce: le sofferenze sono ormai a quota 100 miliardi di euro e il buco che potenzialmente si troveranno costrette ad affrontare è tale da imporre immediatamente una ricapitalizzazione monstre. Ora capite facilmente il perché degli istituti che in Grecia continuano a rimanere chiusi e i bancomat non erogano più di 60 euro.
All’interno di questo quadro, va a inserirsi il blitz del Fmi, il quale ieri ha fatto capire chiaro e tondo che potrebbe non partecipare al terzo salvataggio di Atene uscito dalla riunione fiume di domenica scorsa, compromettendone così pesantemente l’esito. Perché? Perché in un rapporto di tre paginette tre ma capace di fare sconquassi, il Fmi rende noto che «il debito greco può essere reso sostenibile soltanto con misure di sollievo che vanno ben oltre quelle che l’Europa ha finora dimostrato di accettare e anche ben oltre quanto proposto dall’Esm. Se invece l’Europa vorrà ancora una volta offrire misure di sollievo attraverso la mera estensione delle maturazioni dei bond, allora questa dovrà essere nell’ordine dei 30 anni sull’intero stock di debito ellenico, includendo nuova assistenza per Atene. Altre opzioni includono espliciti trasferimenti annuali al budget ellenico o profondi haircuts sull’upfront del debito». E per statuto, il Fmi non può partecipare a un programma di salvataggio se il debito di una nazione è definito insostenibile e non ci sono prospettive di ritorno al mercato obbligazionario privato per finanziarsi.
Il problema è che nel testo licenziato all’alba di lunedì scorso si dice chiaramente che «la Grecia richiederà supporto continuato al Fmi quando l’attuale programma di aiuti terminerà». E se la Lagarde dirà di no, in punta di statuto? L’intero impianto del piano potrebbe saltare, perché senza la quota parte di denaro del Fmi per tamponare il gap bisognerebbe fare affidamento sui profitti da privatizzazione, i quali sono stati quantificati proprio dal Fmi in circa 2 miliardi nei prossimi tre anni! Altra strada, sarebbe l’aumento della quota parte per gli Stati membri all’interno dell’Esm, ma con la Gran Bretagna che si è già chiamata fuori l’esborso sarebbe alto da far ingoiare ai cittadini-contribuenti tedeschi, spagnoli, italiani e portoghesi.
Inoltre, un “no” del Fmi potrebbe essere visto come un comodo alibi per il partito del Grexit, ovvero la Germania e gli altri Stati del Nord i cui Parlamenti stanno per essere chiamati a ratificare l’accordo raggiunto lo scorso weekend. Addirittura, funzionari governativi tedeschi hanno già detto chiaramente che senza l’adesione del Fmi al piano, l’accordo non verrà nemmeno sottoposto al voto del Bundestag. Il piano prevede l’esborso verso Atene di 86 miliardi di euro, di cui cui 40-50 in arrivo dallo European stability mechanism (Esm), mentre l’attuale piano di aiuti del Fmi verso Atene ha ancora 16,4 miliardi di euro disponibili prima della scadenza naturale del marzo 2016, fondi su cui l’Ue contava in sede di accordo e che ora, invece, potrebbero sparire se il Fmi dirà no al terzo salvataggio e bloccherà quello attualmente in corso.
Insomma, madame Lagarde gioca duro. E pesante. Ma non lo fa per amore dei greci, né tantomeno per amore dei dati macro, visto che come ci dimostra il primo grafico a fondo pagina, nel 2012 proprio quei cervelloni del Fmi che adesso strepitano sui numeri prevedevano che il debito greco sarebbe stato sostenibile entro il 2022 (sotto il 120% sul Pil), ma, soprattutto, nelle previsioni sulla crescita del Pil mondiale, vedevano quello ellenico in cima alla classifica dell’intera eurozona nel 2016! Definirli dei cialtroni è dire poco. La verità, sta nel mezzo: ovvero, il debito greco è insostenibile (e tra poco vi spiegherò perché), ma il Fmi sta giocando una partita doppia, spinto com’è dall’Amministrazione Usa a imporre la ristrutturazione del debito ellenico e quindi a scongiurare per sempre l’idea di Grexit, a spese dei contribuenti europei.
Stando a calcoli nemmeno troppo complicati, alla fine del terzo programma di salvataggio – se ci sarà – la ratio debito/Pil greca salirà sopra il 200%, ma non si fermerà lì, perché prendendo in esame il tasso di crescita negativa del Paese e il tasso di interesse positivo in una decina d’anni quella ratio potrebbe toccare quota 336%, come ci mostra il secondo grafico. In altre parole, Grexit automatico ma a fronte di un esborso enorme di denaro europeo e altre sofferenze inutili per la popolazione greca.
Utilizzando il “rasoio di Occam”, infatti, partiamo dal dato attuale, ovvero una ratio debito/Pil del 170% destinata a balzare a quota 200% in base ai termini del terzo salvataggio deciso lunedì. Bene, prima del bailout attuale, il tasso di crescita della Grecia doveva essere 1,70 volte più grande del tasso di interesse che Atene paga sul suo debito solo per stabilizzare e mantenere costante quella ratio. Dal 1970 in poi il tasso di crescita migliore della Grecia annualizzato è stato dell’1,50%, con una media dello 0,46% che negli ultimi dieci anni è scesa a -0,50%. Dal 1997 in poi il tasso di interesse più basso sul decennale greco è stato del 3,41%, con una media del 7,50%, mentre negli ultimi dieci anni la media sale all’8,18%.
Utilizzando l’attuale ratio debito/Pil ellenica, lo studio ci offre un “best case” e “likely case” per i prossimi dieci anni: il best case prevede il tasso di crescita annuale più alto (+2,74%) e il più basso tasso di interesse (3,58%) e con queste condizioni perfette vede comunque la ratio debito/Pil al 184% tra dieci anni. Mentre il “likely case”, il caso più probabile, contempla la media di crescita annua del Pil (+0,45%) e il tasso di interesse medio sul bond decennale (+7,55%) e ci proietta, nel 2025, a quota 336% debito/Pil.
È vero, il debito greco è insostenibile così com’è e va ristrutturato: perché allora solo fino a inizio luglio era il Fmi l’istituzione che maggiormente si mostrava inflessibile con Atene, tanto da scatenare il caso del mancato pagamento e riaccendere l’incendio greco che ha portato agli Eurogruppo d’emergenza e all’accordo raffazzonato di lunedì? Forse perché quella tensione serviva per accelerare la situazione e farla precipitare, comportandosi poi da buon samaritano come fatto ieri e chiedendo una ristrutturazione del debito a spese quasi esclusivamente europee (i bond greci detenuti dal Fmi sono senior) che scongiuri il Grexit e quindi la parità euro/dollaro in poche settimane, come previsto da Goldman Sachs? E sarà poi vera la voce in base alla quale la Francia sotto Sarkozy avrebbe stipulato un mega-contratto derivato in stile Draghi-Ciampi, il quale costerebbe un capitale a Parigi se l’euro dovesse deprezzarsi troppo?
Il duo Lagarde-Hollande è molto attivo sul fronte pro-Atene e sono entrambi francesi. Addirittura, una è l’ex ministro delle Finanze che avrebbe stipulato quel contratto per aiutare il bilancio dello Stato. Almeno così si dice in giro, dalle parti della City… Ma rumors a parte, una cosa è certa: se lunedì prossimo Atene non ripagherà i 3,5 miliardi che deve alla Bce, Draghi potrà essere buono e paziente quanto vuole, ma i mercati prezzeranno quel mancato pagamento come un evento di credito e potrebbero scattare i credit default swaps. Oltre che l’intransigenza tedesca alla sua massima potenza.