Nel 2009, lo storico dell’economia inglese Niall Ferguson pubblicò sul Financial Times un dotto, documentato e saggio articolo su concetto di giubileo. Fin dai tempi di Hammurabi, spiegò, i governanti della Mesopotamia adottarono la politica di cancellare i debiti degli agricoltori, schiacciati da carestia, siccità e altre calamità. Non si trattava di generica bontà, bensì della necessità di evitare il tracollo dell’agricoltura, bastione della crescita (e delle forniture dell’esercito), a danno dell’amministrazione e della burocrazia. Il tema di fondo, notava Ferguson, oggi è lo stesso di allora: l’accumulo degli oneri a carico dei deboli richiede oggi come allora un intervento drastico.



Il doppio carattere religioso ed economico del giubileo ritorna evidente nel Levitico, che prescrive un anno sacro di rigenerazione, rinascita e remissione dei debiti ogni sette anni sabbatici, ossia ogni 49 anni. Nel momento in cui il suono delle trombe annuncia in tutto il regno il giubileo gli schiavi tornano liberi e le terre espropriate vengono restituite agli antichi proprietari. Lo stesso concetto di cancellazione della pena per i peccati e di nuovo inizio è alla base del giubileo cristiano istituito da Bonifacio VIII nel 1300.



Con buona pace della repulsione teutonica per il debito, concepito come una sorta di colpa del debitore da espiare. Non è una frattura casuale. Nel giubileo cristiano, l’aspetto tristemente terreno della vendita delle indulgenze durante l’Anno Santo del 1500 indigna il monaco Lutero e fa germogliare nella sua testa la teoria rivoluzionaria della giustificazione per fede, uno dei capisaldi dalla Riforma. Oggi, sei anni dopo o, se preferite, 3 mila anni dopo, siamo al punto di partenza.

Non a caso Mario Draghi, dopo aver annunciato ieri in conferenza stampa Bce di aver riaperto i prestiti Ela alle banche greche, ancor prima dell’Ok dell’Eurogruppo allo sblocco del prestito ponte di 7 miliardi, ha sottolineato che “è importante ora che si proceda a un intervento sul debito”. Delle due l’una: o trasferimenti diretti alla Grecia oppure un taglio del valore nominale, tabù che la Germania non vuole infrangere. Ma il risultato non cambia: ci vuole un periodo di grazia di 30 anni, in cui Atene non pagherà né capitale, né interessi.



Insomma, è questa la cornice di scelte epocali, che richiedono scelte e responsabilità politiche. Nel frattempo la Bce, difendendo tra l’altro la sua indipendenza dalle pressioni politiche, ha fatto la sua parte: oggi la banca di Francoforte risulta esposta sulle maggiori banche elleniche per 130 miliardi contro 120 di depositi. “Le critiche sui fondi Ela – ha liquidato la questione il banchiere rispondendo alle critiche tedesche – sono infondate”. E ancora: “Non farò commenti sulle opinioni di uomini politici. Per noi la Grecia è e resta nell’euro”. Anzi, la Bce “ha sempre lavorato sul presupposto che la Grecia fa parte e continuerà a essere parte dell’Eurozona”.

Insomma, la settimana più lunga della Bce si è chiusa con uno straordinario successo di herr Draghi. Non solo perché il banchiere ha saputo tutelare l’autonomia della Bce in mezzo a un duro confronto politico, ma ha potuto assistere a un collaudo straordinariamente riuscito della politica della Banca centrale europea. “La terapia funziona, nonostante i recenti avvenimenti”, ha detto Draghi. I dati gli danno ragione. Nonostante le difficoltà dei Paesi emergenti, che incidono sulla richiesta dell’export europeo, il Pil dell’Ue continua a crescere nell’ordine dello 0,4% previsto, mentre l’inflazione, complice il nuovo calo dei prezzi petroliferi, scende dallo 0,3% allo 0,2%. Ma il livello dei prezzi, prevede Draghi, è destinato ad avvicinarsi all’obiettivo del 2% tra il 2016 e il 2017.

Ancor più di queste stime vale la risposta dei mercati. Il Quantitative easing ha saputo far fronte alle tensioni dei momenti più drammatici del duello su Atene. Mai l’asticella dello spread di Btp e Bonos si è avvicinato ai 300 punti base già previsti da Goldman Sachs. Pochi giorni sono stati sufficienti perché le Borse recuperassero lo shock del referendum. E l’euro, complici le attese di rialzi dei tassi Usa, si è attestato sotto quota 1,10. Insomma, dalla battaglia campale di Atene l’Europa esce con non poche ferite, visti i conflitti e i dissensi emersi nel dibattito. Ma la macchina della Bce, messa a punto in occasione del varo dell’Unione Bancaria e dell’avvio degli acquisti del Quantitative easing, funziona in maniera egregia.

E Draghi coglie l’occasione per indicare il prossimo traguardo: il completamento dell’Unione bancaria, compreso uno schema europeo di protezione dei depositi. È un passaggio chiave: il fallimento di Washington Mutual, nel 2009, non ha messo a rischio lo stato di Washington, grazie al paracadute federale (reso possibile dai fondi versati all’amministrazione centrale). Al contrario, la fuga dei depositi dalle banche greche non è stata contrastata con gli strumenti sufficienti. Ma Draghi, nonostante le difficoltà frapposte dalla Germania (impegnata a far fronte ai guasti delle proprie banche), è già in movimento. Nell’attesa del necessario giubileo.