Avanti così: l’ultimo bollettino della Banca d’Italia ha registrato un miglioramento della congiuntura italiana rispetto alle previsioni precedenti, dunque il prodotto lordo aumenterà quest’anno dello 0,7% e non dello 0,5% come pensavano gli economisti della banca centrale. Per il 2016 si prevede un punto e mezzo, quindi si può parlare di vera e propria crescita, quella che sarebbe dovuta già arrivare nel 2014 secondo le speranze del governo Letta e quest’anno stando alle promesse del governo Renzi. Tutto è spostato in avanti, ma primi segnali di miglioramento si vedranno anche nell’occupazione, nel credito, nella produzione industriale e nella domanda interna (consumi più investimenti).
Intendiamoci, 0,7% è poco, pochissimo, l’Italia resta in Europa il vagone di coda e l’Europa stessa è indietro rispetto agli Stati Uniti e alla Cina (nonostante il gigante asiatico stia rallentando). Tuttavia i fattori esterni giocano ancora a nostro favore: l’euro debole spinge le esportazioni, il petrolio resta a buon mercato, e la bomba greca è stata disinnescata, almeno per il momento. Dunque, spiega la Banca d’Italia, avanti così, a condizione di non rallentare il passo delle riforme e di non mollare i freni che tengono sotto controllo il bilancio pubblico.
Tutto ciò può davvero bastare a portare l’Italia su una rotta di vera crescita? Non si sa. Soprattutto, non basta a Matteo Renzi, il cui slogan a questo punto non è avanti così, ma avanti tutta. Fuor di metafora, il capo del governo spera che il terzo salvataggio greco (con riduzione del debito, questa sarà la nuova fase della operazione) offra all’Italia la possibilità di allentare le redini europee e di sforare il tetto del 3% del disavanzo pubblico in cambio di nuove riforme coraggiose, come quella della Pubblica amministrazione e della giustizia civile le quali, anche agli occhi degli investitori stranieri, rappresentano i due pilastri che accanto al Jobs Act possono rendere l’Italia di nuovo attrattiva.
Il governatore della Toscana Enrico Rossi è intervenuto venerdì scorso sul Foglio per sostenere che Renzi ha le carte giuste per imporre ad Angela Merkel uno scambio tra flessibilità e riforme. Non solo: la sua idea è sfondare il tetto di due punti (insomma portare il deficit verso il 5%, grosso modo come la Spagna) per ridurre le tasse e dare così l’incentivo necessario a spingere la domanda interna. Ci sarebbero infatti 30 miliardi a disposizione da spendere riducendo l’Iva che negli ultimi due anni è cresciuta di ben 16 miliardi. Renzi accarezza anche l’idea di togliere l’imposta sulla prima casa (anche se gli enti locali sarebbero contrari). Mentre i sindacati e la Confindustria premono per altri interventi sul cuneo fiscale, e le partite Iva vorrebbero quel bonus che Renzi aveva loro promesso. Insomma, sta per aprirsi il vaso di Pandora. È esattamente quel che teme l’Unione europea che, per questo, è contraria alla proposta.
Le obiezioni sono molte, la prima riguarda il debito che continua a crescere in quantità e in rapporto al prodotto lordo. Doveva cominciare a scendere, ma anche questo obiettivo si è spostato in avanti di anno in anno. Colpa della mancata crescita, ma non solo. La finanza pubblica non è affatto sotto controllo. La spesa corrente continua a correre. Le entrate fiscali restano incerte. Per evitare che scatti la clausola di salvaguardia (cioè l’aumento automatico dell’Iva e delle accise) dal primo gennaio prossimo, bisogna trovare almeno 20 miliardi. Una maggiore flessibilità verrebbe impiegata innanzitutto a evitare questa tagliola, dunque due terzi degli eventuali benefici calcolati dal governatore della Toscana servirebbero per non peggiorare la situazione, non per migliorarla.
Un debito crescente rende difficile aumentare ancora il deficit, ma non solo. Il vero pericolo è l’effetto imitazione da parte dei centri decentrati di spesa, che può provocare un effetto valanga. Perché le uscite dello Stato, quello centrale così come le sue appendici periferiche, non sono affatto sotto controllo. La spending review non è stata mai attuata, anzi è stata sabotata. Per accompagnare una eventuale flessibilità dal lato fiscale, bisogna rimettere in funzione i tanto vituperati tagli lineari che non saranno il massimo dell’equità, ma sono gli unici che finora hanno funzionato nel contenere la spesa rispetto al prodotto lordo.
L’intera operazione si regge sulla speranza che il terzo salvataggio greco abbia convinto la Germania e i suoi satelliti ad abbandonare l’austerità. L’aria che tira non è assolutamente questa. Basta aver seguito il dibattito al Bundestag, basta aver ascoltato gli autorevoli esponenti socialdemocratici che sono sulla linea Schaeuble, per capirlo. Al contrario, il governo ha giurato ai suoi elettori che non ci sarà più un’altra Grecia. E l’altra Grecia agli occhi del tedesco medio, così come dell’élite economica e politica, è e resta l’Italia.
Gli orgogliosi italiani fin dal 2011 hanno rifiutato di sottomettersi alla trojka, hanno detto ce la facciamo da soli. Ce l’hanno fatta, ma restano in bilico, sempre sull’orlo del burrone. Allentare le regole del deficit e del debito significa fare il salto nel vuoto. Quindi la Germania e l’Unione europea saranno ancor più vigili, attente a ogni virgola. Altro che sforare di due punti. Terranno sotto pressione momento per momento, dai calcoli di Eurostat alle riunioni dell’Eurogruppo, le cifre italiane.
Lo stesso farà la Bce. Mario Draghi è un protagonista del salvataggio greco e ha sfidato apertamente Schaeuble. La sua credibilità crollerebbe in un attimo se la Bild sparasse in prima pagina che lo ha fatto per aiutare i suoi connazionali o Matteo Renzi. Ecco perché la Banca d’Italia dice avanti così.
Non basterà? C’è una terza via: una vera e sostanziosa spending review con la quale finanziare il taglio delle tasse. In questo caso il governo avrebbe contro i sindacati, i gruppi di pressione che difendono il proprio orticello assistenziale, e soprattutto comuni e regioni. Il governatore della Toscana non lo dice, su questo glissa, ma Enrico Rossi è troppo intelligente per non saperlo benissimo.