Il problema della farsa greca è che sta falsando il quadro geofinanziario globale, oscurando all’attenzione generale temi molto più importanti che sottotraccia stanno sviluppandosi e creando dedali pericolosi. Partiamo dal primo e dall’immagine che trovate a fondo pagina, scattata giovedì pomeriggio da un satellite e che ci mostra come una nave iraniana con a bordo 2 milioni di barili di petrolio sia già in rotta verso l’Asia. Il super-tanker è la Starla della compagnia Nitc ed è stato caricato nel terminal iraniano di Kharg Island oltre un mese fa, salvo poi sparire dai radar. Ora sarebbe in navigazione verso Singapore, meta che non ha ottenuto una deroga dagli Usa per comprare petrolio iraniano. Ma si sa, l’accordo sul nucleare di Teheran sancito a inizio settimana era una farsa fin dall’inizio, quindi è probabile che gli iraniani lo dessero per scontato e avessero cominciato le operazioni per riversare gli stock petroliferi in eccesso in un mondo che già è strapieno di petrolio e con la domanda in calo. 



Il problema, però, resta: perché la Starla è rimasta oscurata dai radar per un mese? Dov’era? Teheran sta lanciando un segnale al mondo? Oppure, come fa notare qualche analista, potrebbe trattarsi di contrabbandieri, magari legati all’Isis? Resta un fatto, i punti oscuri di quell’accordo sono tanti e, soprattutto, la fine delle sanzioni significa che Teheran potrà esportare petrolio, passando dagli attuali 1,2 milioni di barili a 2,3 milioni di surplus e con il forte rischio di compromettere il business della Russia verso i paesi europei. Eppure Putin sarebbe stato fondamentale per raggiungere un accordo, come ha ammesso anche Obama: cosa succede? Temo che stiamo arrivando alla farsa finale, ovvero al fatto che il crollo del prezzo del petrolio sia stato un azzardo Usa per far ripartire l’economia grazie all’abbassamento della bolletta energetica ma che la strategia non abbia funzionato e ora si corra al riparo, mettendo in agenda anche un bel conflitto in Medio Oriente in vista del voto per la Casa Bianca del prossimo anno. 



Nel suo ultimo outlook la Iea ha reso noto che la produzione petrolifera Usa ha toccato il picco nel mese di aprile, arrivando a 9,7 milioni di barili al giorno, il livello più alto dal 1971, mentre in maggio è scesa di 50mila barili al giorno e l’agenzia pensa che questo calo proseguirà fino all’inizio del prossimo anno, restando però in una media di 9,5 milioni di barili per il 2015 e 9,3 milioni nel 2016. Insomma, più di così l’America dello shale non può andare. C’è però un problema: ieri il prezzo del Wti statunitense era in area 50,55 dollari, ancora in calo, ma il giorno dell’accordo tra Iran e osservatori internazionali, martedì 14, si era arrivati oltre quota 53 dollari, di fatto smentendo ciò che logica vorrebbe, ovvero che l’entrata in scena di un nuovo produttore non potrà che far aumentare l’offerta e quindi calare il prezzo. 



Cosa aveva permesso quel calo? Il fatto che, come ci mostra il grafico, dopo due settimane di crescita continua, le riserve petrolifere Usa avevano subito un shock al ribasso, -7,3 milioni di barili contro l’1,2 milioni attesi dall’Api, il calo maggiore dal luglio 2014. Insomma, dopo essere sceso da oltre 100 dollari al barile a 43 dollari nel suo tonfo maggiore a marzo di quest’anno, i prezzi del Wti erano rimbalzati del 40%, tradando attorno ai 60 dollari in maggio e giugno, una dinamica che faceva pensare alla fine della saturazione del mercato, con la produzione in calo e la domanda che cominciava a risalire. Poi, da mercoledì il tonfo. Cos’è successo in 24 ore? Perché il giorno dell’accordo con l’Iran è bastato il dato delle scorte in calo a festeggiare e ritenere Teheran un problema minore, salvo ripensarci e tornare in calo? 

Qualche ipotesi. Come ci mostra il primo grafico a fondo pagina, a febbraio di quest’anno tre delle principali aziende petrolifere ed estrattive Usa – Schlumberger, Halliburton e Weatherford – avevano annunciato tagli occupazionali, per riduzione delle spese operative, nell’ordine delle 20mila unità. Insomma, si ottimizza la produzione, pompando al massimo e strizzando i margini al limite, avendo ancora per qualche mese la copertura hedge dei derivati contratti che permettono di avere una valutazione di circa 90 dollari al barile ma si licenzia personale, con ovvie ricadute sull’economia reale di molte aree, dal Texas al South Dakota. 

Ma la cosa potrebbe peggiorare, perché il petrolio è la commodities più finanziarizzata al mondo e come ci mostra il secondo grafico, i junk bonds legati al comparto energetico hanno perso il 3% del valore nelle ultime due settimane, visto che i traders si tengono lontani dall’alto rendimento, spedendo gli yields di molte obbligazioni sopra il 10%, livello normalmente associato al rischio di default. Tanto che per Margie Patel della Wells Capital Management, «se si resterà vicino a questi livello, i produttori con costi marginali alti non sopravviveranno». Insomma, gli Usa hanno un problema. Ma c’è chi sta peggio, ovvero l’Arabia Saudita, il principale alleato di Washington nell’area calda del mondo arabo e deus ex machina di quell’Opec che con la sua decisione di non abbassare la produzione sotto i 30 milioni di barili lo scorso hanno è stata la dinamo del crollo dei prezzi, almeno stando a molti osservatori. 

Riyad, infatti, lo scorso anno ha dovuto prendere in prestito 4 miliardi di dollari dai mercati, emettendo il primo bond da otto anni a questa parte per sostenere la spesa pubblica dopo che il crollo del prezzo del greggio ha duramente intaccato le entrate governative. Gli analisti hanno stimato un deficit di circa 130 miliardi di dollari quest’anno, quindi le emissioni continueranno visto che da agosto 2014 a oggi Riyad ha già messo mano alle riserve estere per 65 miliardi di dollari. L’Arabia Saudita ha un breakeven fiscale a 105 dollari al barile e con il prezzo stimato per quest’anno nell’area dei 58 dollari, se il governo continuerà a produrre come al solito senza emettere debito, le riserve potrebbero essere bruciate del tutto al massimo entro l’inizio del 2019. L’America ha spinto per un accordo con l’Iran al fine di restituire lo sgarbo all’Arabia, storico nemico di Teheran? Oppure quell’accordo, così come il super-tanker iraniano miracolosamente riapparso sui radar l’altro giorno, sono soltanto segnali di qualcos’altro, cioè l’intenzione di far deteriorare in fretta la situazione – addossando la responsabilità sull’Iran, magari con qualche false flags e potendo dire al mondo che l’Occidente aveva messo tutta la buona volontà per mediare – per arrivare a uno scontro sul campo, frontale, che funzioni da moltiplicatore keynesiano dell’anemico Pil Usa? Magari utilizzando l’Isis come accelerante dell’incendio doloso? 

 

 

Tanto più che nel 2016 ci sono le presidenziali e la candidata principale per la Casa Bianca appare Hillary Clinton, i cui legami con la lobby ebraica statunitense sono noti da sempre, esattamente com’è nota la posizione durissima di Israele nei confronti dell’accordo di Vienna. Pensavate fosse solo petrolio, pensavate fosse solo domanda e offerta? Invece no, c’è sotto qualcosa di molto più grande e importante. Grande almeno quanto gli interessi in gioco per le grandi banche mondiali, principalmente Usa e le loro scommesse andate fuori controllo. 

Guardate il primo grafico a fondo pagina, ci mostra come ieri pomeriggio, prima che Wall Street aprisse le contrattazioni, sia bastato un buon dato sul mercato immobiliare Usa, seguito però da un’orrenda lettura riguardo le dinamiche salariali e il Cpi, perché qualcuno scaricasse sul mercato futures dell’oro un nozionale di 1,4 miliardi, schiantando il prezzo del metallo prezioso ma anche quello dell’argento, ai minimi record. E ora guardate il secondo grafico, che vi ho già proposto, ma che vale la pena di essere scomodato ancora: si tratta dell’esposizione di Citigroup a derivati sui metalli preziosi. E poi parlano di liberismo.