La settimana scorsa abbiamo chiarito che Eurogruppo e Consiglio europeo erano alle prese non con un negoziato, ma con i prolegomeni di una trattativa. Oggi, lunedì 20 luglio, dopo le approvazioni parlamentari (in Grecia e in altri Stati europei, soprattutto da parte del Bundestag tedesco) del documento del Consiglio europeo, inizia il negoziato vero e proprio. Ad Atene, è stata rinnovata la compagine governativa essenzialmente per comunicare ai partner che i loro interlocutori sono esponenti non della sinistra radicale ma di un “centro-sinistra allargato”. Tuttavia, il negoziato è tutto in salita.



L’erogazione di finanziamenti per fare fronte dalla scadenze immediate della Grecia nei confronti del Fondo monetario internazionale e della Banca centrale europea sono un atto non strettamente dovuto ma di buona volontà e di augurio che la trattativa vada a buon fine. Ci sono, però, numerosi scogli.

Entro metà agosto, al più tardi, la Grecia e i suoi creditori dovranno trovare un accordo sui dettagli delle riforme da mettere in atto (non in cantiere) prima dell’erogazione della tranche di 82 miliardi di euro. Dovranno essere riforme (seriamente specificate e rafforzate) si dice dei piani altri della Commissione europea a Bruxelles. Le prime, in ordine temporale, riguardano il mercato del lavoro e la liberalizzazione dei servizi su licenza pubblica (taxi, farmacie, tabaccherie) e delle professioni. A esse dovrà accompagnarsi la riforma fiscale – che comporta a sua volta una modifica della Costituzione, l’articolo in materia di esenzioni tributarie per gli armatori: sempre nel quadro della riforma fiscale, si dovranno approvare nuove aliquote per le imposte sui redditi e sul valore aggiunto.



L’insieme di queste riforme potrà essere accettato dai greci se si vedranno segni di rimessa in moto dell’economia, di crescita delle attività produttive e dell’occupazione. Non tutti nutrono ottimismi in materia. Nel suo ultimo numero, The Economist di Londra definisce “deflazionario” il programma a cui si sta lavorando e afferma che cinque mesi e mezzo di discussioni hanno “evitato il disastro 2015 (per la Grecia e l’Ue), ma stanno affrettando il prossimo venturo”.

Ove la situazione non fosse già abbastanza complicata, sono arrivate le nuove proiezioni del Fondo monetario sul debito greco che starebbe per raggiungere il 200% del Pil in un’economia le cui prospettive di crescita sono modeste (nella migliore delle ipotesi). La proposta del Fmi è di allungare le scadenze e introdurre un lungo “periodo di grazia” (si parla sino a 30 anni) nei rimborsi di ammortamento e interessi. La questione ha aspetti sia tecnici, sia, soprattutto, politici. Prima di formulare giudizi (i nostri lettori sono perfettamente in grado di farlo da soli), occorre ricordare alcuni fatti e spiegare sia perché ci si è arrivati, sia quali sono i contenuti effettivi del documento Fmi in cui si propone la ristrutturazione del debito greco.



Il debito greco ammonta a 317,6 miliardi di euro. Di questo totale, 141,9 e 59,2 sono crediti del Meccanismo europeo di stabilità e di alcuni Stati europei: sommando le due voci (circa 200 miliardi, dato che sono gli Stati europei a finanziare il meccanismo di stabilità), i maggiori creditori sono, nell’ordine, Germania, Francia, Italia, Spagna e Regno Unito. Non si può certo pensare a “un periodo di grazia” per i crediti del Fondo monetario (21,1 miliardi) e della Bce (27), poiché espressamente vietato dagli statuti delle due istituzioni. È difficile pensarlo che si possa farlo con i 51,4 miliardi sul mercato e ancor meno con i 22,7 miliardi in mano principalmente a fondi comuni e hedge funds.

Giurisprudenza recente (nel caso della ristrutturazione dell’Argentina) dimostra che, ove la Grecia lo facesse unilateralmente, si aprirebbe un contenzioso che potrebbe portare non a un default, ma a una dichiarazione di fallimento dello Stato e pignoramento di attività quali il porto del Pireo. Quindi, la proposta del Fmi pare riguardare una parte dei crediti di cui sono titolari i privati, essenzialmente agli azionisti (in misura grandi oligopolisti in vari comparti dell’economia greca) a cui si chiede un bail-in, termine tecnico che in sostanza vuole dire che siano loro i primi a pagare per la situazione dei loro istituti. Come previsto, d’altronde, dalle regole dell’Unione bancaria europea. A una lettura affrettata, sembra favorire il Governo Tsipras (nella sua attuale composizione), ma in effetti lo mette in serie difficoltà con i “poteri forti” greci.

Altro nodo da scogliere è quello del “Fondo di garanzia”. Il Governo greco si è battuto perché sia localizzato in patria e ha raggiunto questo obiettivo. Ma la localizzazione fisica conta poco: il nocciolo è: a) se ci sono sufficienti attività da porre come “sottostanti” il fondo; b) chi lo gestirà. Da un lato, sembra che ci sia rimasto poco di “appetibile” per i gestori internazionali. Da un altro, gli “amministratori greci” verranno “vigilati” dai “rappresentati delle istituzioni”. In effetti, dato che i “rappresentanti delle istituzioni” avranno anche il compito di vagliare i disegni di legge, il negoziato appena aperto specifica i codicilli per un “protettorato Ue”. Per la Grecia, ciò può essere offensivo. Per l’Ue pericoloso perché se l’economia greca non riparte le responsabilità verranno attribuite a Bruxelles e Francoforte.

A complicare ulteriormente il negoziato, le tensioni all’interno dell’Ue e dei singoli Stati, ma le analizzeremo in una prossima “chronique”, quando saranno più chiare. 

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