Cesare Romiti, classe 1923, guida da dodici anni la Fondazione Italia-Cina con lo stesso, energico stile professionale con cui ha attraversato da top manager cinquant’anni di vita Italia fra grande impresa e politica industriale: dalla Snia Bpd all’Alitalia, dalla Fiat (di cui è amministratore delegato e infine presidente) a Rcs. Fiat ed Eni, Intesa Sanpaolo e UniCredit, Generali e Pirelli, Ministero degli Esteri, Unioncamere e Regione Lombardia sono fra i soci fondatori di quella che da anni è una consolidata cabina di regia nella comunicazione economico-imprenditoriale fra l’Azienda Italia e Pechino.
Dell’attività della Fondazione e dei punti di vista aggiornati del suo andirivieni fra Italia e Cina Romiti ha parlato recentemente rispondendo a un invito del Circolo del Sussidiario. “In Italia ci si chiede ancora se la Cina sia un pericolo o un’opportunità. Ci si dimentica che stiamo parlando di un Paese grandissimo, con una storia millenaria, ben più antica di quella del mondo occidentale”, dice conversando con IlSussidiario.net
Quando ha scoperto il Dragone?
Il mio interessamento per la Cina risale a una quindicina di anni fa, quando ci andai per la prima volta, e mi meraviglia che oggi, dopo tutto questo tempo, esistano ancora delle perplessità. Potrà convenire o non convenire, non sempre parliamo in termini competitivi, ma mi pare evidente che la Cina sia una realtà da osservare e di certo una possibilità per un continente ormai sfiancato come l’Europa e per un Paese, qual è l’Italia, che non è certo messo meglio.
Attualmente la Cina è il più grande investitore sulla Borsa di Milano.
E di fatti come questo che bisogna tener conto. Nel 2014 l’interscambio tra Italia e Cina ha raggiunto i 48 miliardi di dollari Usa. Nel corso della sua ultima visita in Italia, l’allora Primo ministro cinese, Wen Jiabao, parlò di un obiettivo di 100 miliardi di dollari di interscambio tra i due Paesi. Siamo ancora molto lontani ma questo può essere certo un obiettivo e sarebbe un’opportunità molto importante per le nostre imprese. Di sicuro non è facile, visto che la domanda e l’offerta tra Italia e Cina sono speculari, gran parte dei settori in cui esportiamo sono i medesimi nei quali importiamo dalla Cina. Una situazione che allo stesso tempo, però, ci offre enormi opportunità di crescita. .
Quali sono, a Suo avviso, percorsi “win-win”, utili a creare valore non sul piano finanziario ma anche su quello economico-industriale del sistema-Paese?
Gli imprenditori cinesi nascono dal basso ma hanno capito che la cosa importante per un prodotto è il suo marchio, questo è il loro vantaggio. Basti vedere il caso dell’acquisizione della Pirelli. È stata una magnifica operazione ma mi sembra che qui in Italia ci si sia dimenticati che tra i doveri di un governo c’è anche quello di portare avanti la politica industriale e manifatturiera. Il vantaggio dei cinesi è tutto lì, sono certo che sapranno produrre pneumatici fatti bene, come li faceva Pirelli. Le possibilità per i marchi italiani oggi sono enormi. Se prendiamo realtà provinciali e poco conosciute e le valorizziamo abbiamo un punto di forza, visto che il nostro Paese è ricco di piccole aziende italiane, che hanno prodotti eccellenti ma marchi ancora poco noti. Siamo un Paese che produce e sa produrre.
Quali sono le prospettive per il made in Italy?
Made in Italy vuol dire “fatto bene”. Se i nostri produttori si presentano all’estero con un minimo di competenze, possono avere facilmente successo. Ma le imprese hanno bisogno di aiuto e accompagnamento e mi sembra che la politica di oggi non sia in grado di offrirlo. Eppure il modello della vecchia politica industriale italiana è ancora riproducibile, basta volerlo. Parlando di percorsi “win-win”, l’obiettivo è quello di promuovere scambi in entrambe le direzioni. Abbiamo circa 2000 imprese italiane sul territorio cinese, gli investimenti italiani in Cina continuano a crescere seppur con un ritmo ormai abbastanza lento e nello stesso tempo le imprese cinesi in Italia sono in numero decisamente inferiore ma in fortissima crescita. I gruppi investitori cinesi in Italia alla fine del 2014 erano 123, per un totale di 235 imprese italiane partecipate con 13 mila dipendenti e 5 miliardi e mezzo di fatturato. Sono numeri che denotano una forte crescita e sicuramente su questo possono nascere grosse opportunità per il nostro “Sistema Paese”.
L’economia cinese è destinata a raggiungere il primato globale in termini di Pil assoluto. Il traguardo è stato conseguito dopo la fine del maoismo con una lunga fase di crescita “a doppia cifra”, ora rallentata. Quali sono a suo avviso i due o tre grandi “driver” che hanno consentito alla Cina di entrare nella zona avanzata dell’economia mondiale?
Sono quattro i fattori che hanno consentito alla Cina di diventare di fatto la prima economia mondiale, tutti interconnessi tra loro. Il primo è sicuramente quello dell’urbanizzazione, visto che per la prima volta nel 2013 in Cina si sono registrati più abitanti nelle città che nelle campagne. In Cina in questo momento ci sono più di 100 città con oltre un milione di abitanti e questo crea enormi opportunità per le nostre imprese. Il secondo motore è la svolta dei consumi, grazie al passaggio da un’economia col più alto tasso di risparmio al mondo all’incentivo al consumo che nel 2014 è diventato parte preponderante del Pil del Paese. E chiaramente un mercato potenziale di un miliardo e 400 milioni di consumatori è un mercato che racchiude enormi opportunità.
Quindi la Cina non è più solo la “fabbrica del mondo”.
Assolutamente no. E’ invece ormai il mercato interno più allettante del mondo. Questo è estremamente collegato alle altre due svolte: la svolta dei servizi e l’attenzione alla qualità. Anche in questo caso il 2013 è stato un anno di svolta, il primo in cui la percentuale dei servizi rispetto alla composizione del Pil è stata superiore sia a quella del settore industriale sia a quella del settore agricolo, e il superamento è avvenuto anche nel numero dei lavoratori. Ultimo fattore di sviluppo è quello della qualità: la fine della crescita a doppia cifra è stato un aspetto previsto e voluto nel XII piano quinquennale, con la scelta di puntare non più sulla quantità ma sulla sostenibilità, e questo vuol dire anche opportunità nuove ed enormi in determinati settori, come quelli ambientali e sanitari.
Ha ragione o torto chi preconizza una possibile implosione dell’Azienda-Cina, legata essenzialmente al suo non essere una democrazia di mercato?
È dal Settanta che si dice che la Cina sta per crollare. Chiaramente il sistema cinese è un ibrido, formalmente socialista all’interno di un regime di un capitalismo quasi estremo. Ma alla domanda su una possibile implosione, non vedo pericoli. Si parla da decenni di una crisi cinese e il fatto che la Cina per la prima volta non abbia raggiunto il target auspicato dello 0,15%, crescendo del 7,4 invece che del 7,5%, non può certo far parlare di crisi. Guardare a questa situazione con preoccupazione è un controsenso se pensiamo ai nostri tassi di crescita, tanto più che era un aspetto ampiamente previsto dall’ultimo piano quinquennale. Nel comunismo cinese di oggi i mezzi di produzione sono privati, non più proprietà dello Stato, sebbene lo stesso Stato ne possegga una grande massa. Si parla di uno Stato comunista perché il potere è ancora nelle mani di una classe dirigente che si autorigenera nella scuola e nel partito, dove si insegna il modo di dirigere il Paese e si crea una classe politica che lo comandi.
Alla Cina si rimprovera ancora qualche limite sul terreno di diritti e tutele civili.
Un sistema mostra ancora qualche ruvidezza, ma al contempo, garantisce libertà ai mezzi di produzione e alla produzione stessa. E questo dovrebbe essere uno spunto di riflessione per noi occidentali. Confusione e rivoluzioni possono aver favorito un certo numero di imprenditori ma, come detto, la maggior parte di loro nasce dal basso. È per questo che spesso ci meravigliamo leggendo sui giornali le storie delle enormi ricchezze di cinesi dal nome sconosciuto. A queste persone, però, è stata data una possibilità.
Cos’hanno da insegnare la tecnocrazia pubblica di Pechino e il capitalismo semi-privato di Shanghai a un Occidente meno sicuro di se stesso dopo la grande crisi finanziaria in America e la lunga recessione in Europa?
La storia moderna della Cina nasce da un uomo che si chiamava Deng Xiaoping, che ha avuto una vita bella e difficile in una Cina ancora oppressa e angariata. Ma era un poeta, pensava all’avvenire. Come ha fatto un Paese di tradizione comunista, dove le libertà obiettivamente non ci sono anche se tendono ad aumentare, ad ottenere questi progressi, mentre il resto del mondo era in crisi? Nei nostri Paesi occidentali leggiamo i giornali e sembra che un obiettivo dello 0,2% di Pil sia un grande successo ma la Cina negli ultimi venti anni è andata avanti con un incremento del prodotto interno lordo del 20%, ora stabilizzato – come detto – al 7,5%. Sono numeri previsti dai loro piani quinquennali, i cui risultati finali sono sempre quelli che avevano annunciato. Non voglio fare paragoni ma noi non siamo abituati a questo tipo di gestione.
Il padre della Cina post-maoista è stato Deng Xiao Ping.
L’idea vincente di Deng Xiaoping è stata quella di dire che i Paesi hanno bisogno di essere comandati da una guida certa e sicura. Deng Xiaoping decise di abbinare a uno Stato totalitario dai grandi numeri, anche la libertà di commercio. E il risultato è che a Shanghai oggi ci sono più macchine Ferrari che in qualunque altro Stato del mondo. Ferrari intese ovviamente come simbolo di ricchezza. La Cina ha risposto immediatamente alla crisi, aumentando la spesa pubblica mentre noi abbiamo “sfruttato”, o non sfruttato, la crisi come occasione di austerity e di taglio totale della spesa pubblica. Il deficit di bilancio in Cina tra il 2008 e il 2009 è più che quadruplicato in un anno ed è aumentato ancora. Sicuramente su certi temi ha poco da insegnare ma ben più da apprendere – penso alle questioni di libertà, democrazia e diritti – ma su altro è certo un esempio. La Cina fa dei piani quinquennali, si impegna per rispettarli e in buona parte ci riesce. Noi italiani viviamo in una democrazia in cui i governi sembrano giocare a distruggere le riforme dei governi precedenti e questo la dice lunga su un’attenzione alle prospettive di medio-lungo periodo e su quello che dovremmo imparare.
L’ultimo vertice Apex ha enfatizzato il ruolo di Pechino come cardine della scacchiere geopolitica, non solo nell’Asia-Pacifico. La crisi ucraina ha favorito un riavvicinamento fra Russia e Cina. In Oriente le relazioni fra Cina e Usa sono rese periodicamente problematiche dalla collocazione del Giappone e dal caso coreano. In questo quadro come potranno evolvere i rapporti fra Cina e Ue?
Dobbiamo dimenticarci le modalità con cui disegniamo le nostre cartine geografiche. L’Italia e l’Europa, in questo momento, non sono al centro del mondo. L’Unione europea non è tra i principali partner della Cina, che al rapporto con le istituzioni europee preferisce i rapporti bilaterali con i singoli Paesi, con alcuni (come la Germania) molto stretti. Nello stesso tempo, l’Europa in generale è un soggetto che sta accrescendo la sua importanza rispetto alla Cina per quanto riguarda gli investimenti. Per quanto gli investimenti cinesi in Europa siano in percentuale poco più del 5% rispetto a quelli in corso nel mondo, sono certo segnali strategici di come la Cina guardi con interesse all’Unione europea: più da un punto di vista commerciale che per una reale relazione di politica estera.
Come evolveranno le linee strategiche d’intervento della Fondazione Italia-Cina?
La Fondazione mira a continuare ad essere quello che è sin dalla sua nascita, un ponte tra Italia e Cina. Con la differenza che, se prima il suo ruolo era quello di promuovere e supportare le imprese italiane nel loro percorso di internazionalizzazione in direzione Cina per dare vita a un vero e proprio “Sistema Paese”, oggi sempre più questo lavoro si svolge anche in direzione contraria, non solo a sostegno di quelle realtà imprenditoriali italiane che hanno – o vogliono avviare – relazioni commerciali con la Cina ma anche di quelle imprese cinesi che scelgono l’Italia per i loro investimenti. Un ruolo che la Fondazione intende portare avanti, promuovendo gli scambi in entrambe le direzioni e mettendosi a disposizione delle esigenze sempre nuove delle imprese.
(Antonio Quaglio)