Ieri abbiamo parlato dell’Australia e dei suoi guai di bilancio legati al crollo del prezzo delle materie prime, arrivate ai minimi da 13 anni a questa parte, come ci mostra il grafico a fondo pagina. In particolare, lunedì scorso è stata una certa commodity a essere “attenzionata” dal mercato, l’oro, il quale nel silenzio pressoché generale dei grandi media ha subito quello che si può definire un attacco speculativo in piena regola. Qualcuno infatti ha scaricato 7600 contratti futures che coprivano 24 tonnellate d’oro al Globex di New York in due minuti subito dopo l’apertura nella tarda notte di domenica. Contemporaneamente, altre 33 tonnellate sono state vendute a Shanghai, qualcosa come 57 tonnellate d’oro vendute in un periodo ristrettissimo di tempo e nel mercato relativamente piccolo dell’oro. Di più, la scelta è stata fatta per creare il maggior impatto possibile, operando la mattina presto e con Tokyo chiusa per festività, ambiente ottimale per gli shortisti che operano a leva per far scattare gli stop tecnici. Insomma, speculazione pura e oro in area 1100 dollari l’oncia.
Ma perché ora? E perché l’oro? Certo, come vi ho dimostrato la scorsa settimana sono moltissime le banche d’affari, Citigroup in testa, a essere pesantemente esposte a derivati sui metalli preziosi, ma qui c’è dell’altro, non è soltanto la mera tutela di un interesse finanziario privato. Vediamo qualche dettaglio. Per Michael Lewis, capo del dipartimento commodities di Deutsche Bank, il fair value dell’oro è attorno ai 750 dollari l’oncia, una valutazione che si basa su un indice di otto indicatori, tra cui petrolio, rame, prezzo dei titoli azionari e reddito pro capite: «La prospettiva della fine della politica di stimolo della Fed e del rialzo dei tassi in Usa è un azzardo per l’oro». E, in effetti, negli ultimi giorni e con l’approssimarsi del meeting di Jackson Hole di agosto, sempre più falchi della Federal Reserve stanno facendo capire che il primo rialzo da otto anni a questa parte il prossimo settembre è più probabile di quanto sembri.
Strategia? Può essere, i dati macro Usa, infatti parlano un’altra lingua, la Borsa viaggi su multipli di utile per azione di oltre 20x e lo stesso crollo del prezzo delle commodities è un argomento disinflazionario che al limite allontanerebbe il rialzo di un quarto di punto. In compenso, questa ipotesi sta facendo apprezzare il dollaro, visto che flussi di capitale si spostano verso gli Usa in cerca di rendimenti maggiori, anche se Goldman Sachs invita invece a restare overweight sui mercati azionari europei. Insomma, quando il Qe schiantava il dollaro, l’eccessiva liquidità ha spedito l’oro a 1921 dollari l’oncia nel 2011, oggi l’effetto è contrario.
Tutto sembra puntare a un calo ulteriore: i tassi di interesse reali stanno salendo, il dollaro si rafforza e il premio di rischio sulle equities sta calando. E con le prospettive, da parte di Deutsche Bank, di un biglietto verde in continua ascesa fino al 2017, passando attraverso la parità con l’euro fino a 0,85 in virtù delle divergenze tra i cicli monetari delle due sponde dell’Atlantico. Chi sta già pagando l’attacco all’oro sono i titoli minerari australiani, con la Newcrest Mining giù dell’8,8%, la Newmont Mining giù del 12% e la Barrick Gold addirittura del 14%, minimi che non si vedevano dai tardi anni Ottanta. C’è però qualcun’altro che potrebbe pagare un prezzo al deliberato attacco contro l’oro, ovvero le Banche centrali e di conseguenza gli Stati. Sul finire degli anni Novanta, gli Istituti centrali vendettero 400 tonnellate d’oro all’anno, spostando il loro interesse verso obbligazioni, ma oggi sono tornati a essere acquirenti netti, almeno in aggregato.
Quelli asiatici e dei mercati emergenti sono i più grandi accumulatori di riserve estere e hanno poco oro, ma adesso stanno cominciando a puntare verso ratio minime del 10% in metallo prezioso per limitare la dipendenza dal dollaro e dalle altre valute fiat. E ora quale dinamica è in atto? Nel picco del boom delle commodities, le Banche centrali compravano 300-400 tonnellate all’anno, fino a scendere al livello attuale di circa 100 tonnellate all’anno e alcune sono state costrette a vendite forzate delle riserve per difendere le loro valute. Pensiamo alla Russia, la quale per difendere il rublo da un attacco speculativo a inizio anno ha visto le sue riserve calare a 361 miliardi di dollari dai 524 miliardi di un anno e mezzo prima, grazie al combinato di crisi ucraina e crollo del prezzo del petrolio. La Cina, dopo sei anni di silenzio, venerdì scorso ha pubblicato l’aggiornamento del dato delle sue riserve auree, circa 1600 tonnellate con un aumento del 57% dal 2009: dato non credibile, visti i continui acquisti di questi anni che portano alcuni analisti a parlare di riserve per almeno 3000-3500 tonnellate.
Il rischio per il mercato dell’oro è che gli Stati più vulnerabili potrebbero dover vendere le riserve a un ritmo sempre più rapido in caso la Fed alzi davvero i tassi, con i soli mercati emergenti che hanno preso in prestito qualcosa come 4,5 trilioni di dollari: lo shock sarebbe doppio, tassi più alti e dollaro in rafforzamento. Si rischia, insomma, una margin call per i debitori in dollari e questa dinamica potrebbe andare a impattare attraverso il mercato dell’oro come effetto secondario. E qui entra in gioco un’altra dinamica, ovvero quella che vede il rialzo dei tassi Usa legato a doppio filo al rischio di innescare una nuova crisi, questa volta in America Latina.
Siamo alla vigilia di un secondo “taper-tantrum”, dopo quello dell’estate del 2013 che prezzava la fine del Qe3 lanciato da Ben Bernanke e che scosse molti Paesi asiatici? All’epoca i titoli azionari latino-americani si schiantarono, visto che il flusso di denaro che cercava rendimenti migliori di quelli offerti dai Treasuries cambiò direzione. Per Eugenio Aleman, senior economist alla Wells Fargo Securities, «ci sarà un “taper tantrum” in America Latina, è inevitabile». E sarebbe un bel guaio, visto che la Banca Mondiale prevede che questo sarà l’anno peggiore in fatto di crescita per l’America Latina dalla crisi finanziaria, con i due mercati azionari peggiori al mondo che sono proprio in quest’area.
Parliamo di un’estensione economica doppia dell’India e che oltretutto sta già patendo il rallentamento dell’economia cinese e il calo del suo mercato azionario: di più, l’America Latina è il nuovo campo di battaglia commerciale tra Stati Uniti e Cina. Quest’ultima è infatti il primo partner commerciale per molti Paesi dell’area, ma nei mesi recenti gli Usa hanno rinforzato la loro presenza, ora però la situazione sta peggiorando: sempre Eugenio Aleman fa notare che «il Brasile è in una brutta situazione, l’Argentina non sta molto meglio, il Cile ha rallentato e il Perù ancora di più». C’è poi la peggior economia al mondo, ovvero il Venezuela con la sua inflazione alle stelle e lì accanto la Colombia, il peggior mercato azionario al mondo quest’anno, giù del 13% nei primi sette mesi, con il Perù al secondo posto a -12,5%.
Per Neil Shearing, capo economista per i mercati emergenti alla Capital Economics, «un netto ribasso in Cina rimane il rischio esterno chiave per l’America Latina» e il grafico qui sotto, ci mostra la situazione. Inoltre, nella scorsa decade l’intera regione aveva vissuto un boom proprio grazie al super-ciclo delle commodities come acciaio, rame e generi alimentari, mentre ora i prezzi sono ai minimi e quindi anche le entrate a loro connessi tramite l’export e la Cina sta rallentando, quindi non è più il player onnivoro di prima.
Infine, la valuta. La moneta colombiana ha già perso il 13% di valore sul dollaro quest’anno, il real brasiliano il 21% e anche il peso messicano continua a calare: un guaio per i consumi, limitati dal costo in aumento dell’export e per le aziende indebitate in dollari. Insomma, un dedalo inestricabile e ultra-connesso. Si parte dall’oro ma tutto quanto è unito da un filo unico. Se la Fed alza davvero i tassi, saranno guai serissimi.