Lasciamo da parte, almeno una volta, il tormentone greco che pure riserverà ancora sorprese e qualche patema d’animo. E guardiamo allo stato di salute dell’economia globale. Partiamo dalle buone notizie. L’Europa sta raccogliendo i primi, sostanziosi frutti del Quantitative easing. L’iniezione di liquidità comincia a raggiungere, finalmente, le imprese che ritrovano la voglia di investire e di crescere. L’avvio della campagna delle semestrali europee, ieri mattina, è stato segnato dal balzo degli utili di Unilever, colosso del largo consumo, così come da Syngenta, fertilizzanti e, a sorpresa, di Mercedes, che ha saputo far fronte al calo degli acquisti in Cina. Ancor più sintomatico il risveglio di Kingfisher, che detiene marchi come Castorama e Brico Depot in Francia o Screwfix nel Regno Unito: le famiglie stanno, con prudenza, tornando a riaprire il portafoglio. Non è ancora il momento dei consumi, ma degli investimenti “leggeri”, a partire dalle riparazioni e delle migliorie domestiche rinviate nei momenti peggiori.
Il trend si avverte anche in Italia: come dimostra la ricerca sul risparmio del Centro Einaudi, le famiglie hanno effettuato in questi anni una feroce spending review senza però sacrificare gli investimenti più preziosi, pur cambiati in maniera vistosa in questi anni: non si pensa più a investire nel mattone, semmai nella formazione e nell’educazione dei figli.
È ancora presto per cantar vittoria, ma, anche a giudicare dalle indicazioni in arrivo dal mondo del credito, è lecito prevedere altre note positive. Conta l’euro “leggero”, così come la nuova pressione al ribasso delle materie prime, a partire dal petrolio. Ma anche le strategie e la vision diversa delle imprese, che ormai agiscono in un’ottica globale. L’acquisto di Carte d’Or, seconda potenza del caffè francese, da parte di Lavazza è un segnale eloquente del buono stato di salute dell’alimentare di casa nostra: i tempi di Parmalat sono ormai alle spalle. Ma non mancano esempi di crescita eloquenti anche in altri settori: De Longhi tocca i massimi assoluti in Borsa grazie all’exploit (+44%) delle vendite in Asia Pacific; D’Amico consolida la sua posizione nella top ten dello shipping mondiale; sono in forte crescita sia il biomedicale che la chimica, farmaceutica, primato industriale e della ricerca ormai di livello globale.
Una parte d’Italia, insomma, ha ormai svoltato. Altre potrebbero seguire se, finalmente, nasceranno dei global player finanziari in grado di assistere la crescita. È il momento di mettere il serbatoio del risparmio degli italiani al servizio delle imprese, senza mediazioni bancocentriche. Fondi di investimento, fondi pensione e compagnie sono state finora molto (troppo) prudenti nelle scelte, nonostante le leggi consentano ormai investimenti diretti nelle imprese.
In sintesi, l’Europa, Italia compresa, si ritrova nel ruolo da tempo perduto di locomotiva della crescita del pianeta. Nel frattempo rallentano gli Emergenti, che hanno bruciato in termini di valori di Borsa tutti i progressi raggiunti dal 2009 in poi al traino della Cina. È un dato allarmante per noi vista l’importanza dell’export in certe aree del mondo: alla frenata della Cina e all’embargo nei confronti della Russia si aggiungono i problemi di Paesi per noi molto importanti come Brasile e Turchia.
Intanto, soffrono anche i primi della classe, ovvero gli Stati Uniti, sotto shock per lo scivolone dall’ammiraglia Apple. La Mela ha annunciato utili in crescita del 33% rispetto a un anno fa, ma è stata bocciata lo stesso in maniera clamorosa: un ribasso tra il 6% e il 7% per tutta la giornata con una perdita della quotazione superiore ai 50 miliardi di dollari, più o meno il valore dell’Eni. A scatenare la pioggia di vendite la notizia che sono stati venduti in un trimestre “solo” 47,6 milioni di iPhone, mentre l’iWatch (2,6 milioni di pezzi nei primi tre mesi) è stato sotto le previsioni. Di fronte a questi numeri gli analisti temono che si inneschi un pericoloso effetto domino: Apple, infatti, ha annunciato un taglio delle spese per investimenti nell’ordine di un miliardo di dollari. A cascata rallentano le attività del mondo tech, a partire dai semiconduttori, come dimostra lo scivolone di Stm.
La conferma arriva da un altro Big della new economy: Microsoft. La ditta di Bill Gates accusa una perdita storica (3,2 miliardi in un trimestre) a causa del buco sciagurato di Nokia. Ma a spaventare Wall Street è forse più il calo dei diritti del software, a causa della discesa delle vendite dei pc un po’ ovunque, Asia compresa. E la minor domanda degli Emergenti, combinata con il dollaro forte, è anche la ragione delle delusioni di Ibm, che in questi anni ha compensato nelle terre più lontane il declino in patria. Spaventa di più, in questa chiave, il brusco taglio dell’occupazione e degli obiettivi di Qualcomm imposto, ancor prima che dal mercato, dalle richieste dei private equity azionisti che hanno preteso interventi a protezione della cassa più che del futuro.
È la punta dell’iceberg del trend che sta distinguendo l’attuale fase della finanza Usa, per certi versi antitetico al momento vissuto dall’Europa. Il Vecchio Continente, abbiamo visto, comincia a godere per davvero dei vantaggi del Quantitative easing: i capitali si stanno spostando, a fatica, dai titoli di Stato e dai forzieri delle banche verso i corporate bond e l’economia reale. Per ora non si vedono segnali di bolla. I problemi arriveranno, ma non a breve.
In Usa, invece, i capitali sono sempre più concentrati verso la speculazione finanziaria: nel corso dell’ultimo anno, su richiesta dei soci activist, si sono moltiplicati i buyback e i dividendi straordinari oltre agli M&A con un’ottica più finanziaria che industriale. La battuta d’arresto del tech è in questo senso un segnale d’allarme per un’economia che campa di credito: il rally Usa, oltre che dal petrolio a basso prezzo, è stato reso possibile dagli acquisti di auto, al 90% finanziati da prestiti.
È in questa cornice che prende corpo il dilemma della Fed: un aumento del costo del denaro potrebbe avere effetti preoccupanti per il dollaro, giudicato troppo forte, così come sulle economie emergenti. Ma, dopo sette anni di tassi bassi e un formidabile Qe alle spalle, l’America ha bisogno di trovare una via di rientro dalla stagione del costo del denaro quasi gratis. Non è una scelta facile, anche perché mancano esperienze di successo nel passato.