Le etichette che utilizziamo per definire i fenomeni sociali hanno molti vantaggi: risultano immediate, perciò facilmente memorizzabili, e tendono a durare a lungo proprio per queste loro capacità; per altro verso, possono diventare una prigione; cognitiva, certo, ma pur sempre una prigione. Il destino dell’etichetta “Nord Est”, ad esempio, ha osservato quest’esito, come appare riconoscere Daniele Marini, docente presso l’Università degli Studi di Padova e direttore scientifico di Community Media Research, autore de “Le Metamorfosi. Nord Est: un territorio come laboratorio” (Marsilio, 2015); con le sue parole: “Il Nord Est (del passato) non c’è più. E, forse, non dobbiamo neppure attaccarci più di tanto a un’etichetta, il Nord Est appunto. Perché quella categoria – promossa da Giorgio Lago – rappresentava fenomeni diversi da oggi”.
Rebus sic stantibus, due sono le possibilità: assieme all’etichetta, cestinare l’analisi di fenomeni che si ritengono esauriti, come il “vecchio” Nord Est; oppure allontanarsi da uno sguardo semplificato su quei fenomeni, cercando di coglierne attentamente i nuovi tratti: non per etichettarli nuovamente, ma per comprenderli, nella consapevolezza che abbiano ancora qualcosa da dire.
Che cosa ha da dire, ancora, l’ex “locomotiva d’Italia”, la patria delle piccole aziende che negli anni ‘90 divenne quasi il paradigma di una crescita economica che, oggi, appare “storia”? Marini non assume una sola prospettiva, ma allarga lo sguardo a una molteplicità di dimensioni: le imprese, certo, ma anche i valori, il tema della coesione sociale e quello, a esso legato, della partecipazione degli immigrati, fino al tema della fiducia nelle istituzioni. A proposito di cose da dire, quindi, queste paiono non mancare, ed è forse opportuno soffermarsi un po’ su di esse.
Innanzitutto, nella “crisi come nuova normalità” – che anche l’area nordestina ha conosciuto dal 2012, come ricorda l’autore – c’è ancora spazio per imprese efficaci ed efficienti, purché le parole chiave che ne ispirano la vision siano: “innovazione”, “attenzione al capitale umano”, “propensione alla ricerca di nuovi prodotti” e, infine, un preferenziale rapporto “cliente-prodotto-servizio”. Centrare l’attenzione solo sulle imprese, però, rischierebbe di proporre un canovaccio già visto: la dimensione della crescita economica come indicatore univoco – “etichetta” – di un territorio. Per questo lo sguardo si estende, in coerenza con i sempre più frequenti tentativi di trovare indicatori ultra-economici – o dovremmo forse dire “ultra-produttivi” – per rappresentare qualcosa in più di quello stesso territorio. Sul tema dei valori, ad esempio.
A partire da alcune rilevazioni svolte in Veneto, il “lavoro”, “l’autonomia”, “l’intraprendenza” e la “coesione” si stagliano come i perni fondanti l’immagine che i veneti hanno oggi di loro stessi. Un’immagine che, tuttavia, è tutt’altro che univoca, restituendo quelle sfrangiature che sono cifra delle società complesse: “Dunque, non esiste «un veneto», bensì i veneti sono attraversati da una pluralità di vision sul loro futuro. Al punto che si potrebbe sostenere l’esistenza di più veneti (al plurale) del domani”. D’altra parte, le “etichette” affibbiate continuano a pesare nelle percezioni che le persone hanno di loro stesse, come quelle della popolazione nordestina “ricca, ma ignorante”, spesso “lamentosa e mai contenta”.
Tutta colpa degli altri, allora? Niente affatto, se è vero che “i veneti e le loro classi dirigenti dovrebbero interrogarsi su qual è l’immagine che loro offrono di questo territorio. E quanto hanno fatto concretamente perché simili raffigurazioni potessero essere modificate”. Senza dubbio, tra i “nuovi veneti” le persone di origine straniera sono la componente che più ha mutato il volto della popolazione nordestina degli ultimi anni. Una popolazione nordestina che, in linea con quelle sfrangiature di cui si diceva, presenta orientamenti diversificati nei confronti della pluralità rappresentata dagli immigrati, atteggiamenti che però segnalano come “non possiamo continuare a ignorare il tema della cittadinanza e della partecipazione alla comunità nazionale di una parte consistente della popolazione. Anche perché, prima o poi, tali domande prenderanno forma”.
Nel testo, il tema delle persone di origine straniera è anticipato non a caso da quello della coesione sociale: proprio il “capitale sociale diffuso” ha consentito molta parte dei loro processi d’inserimento. Ma la spia che ci siano fenomeni di erosione di queste risorse è chiara: soprattutto nel Nord Est si partecipa ancora, non poco; alle associazioni e, in quota più ampia, a iniziative culturali, del loisir e sportive; la famiglia resta il riferimento più importante. Il problema, nondimeno, è che queste risorse “dal basso” non potranno surrogare per sempre i deficit istituzionali: “Famiglia, amici e volontariato. Questi sono i tre fili dell’ordito che costituisce quella rete cui la popolazione ritiene di contare in caso di difficoltà, cui si rivolgerebbe per chiedere un aiuto. I servizi pubblici del Comune e dello Stato, assieme ai concittadini, si collocano al fondo di questa classifica virtuale delle reti di sostegno”.
Di queste reti, nel Nord Est faceva parte anche la parrocchia, così come la chiesa costituiva un riferimento valoriale importante. Oggi è un “Nord Est secolarizzato dove comunque la domanda di religiosità occupa un posto significativo”. Insomma, i riferimenti tradizionali s’innervano di nuovi percorsi e nuove possibilità, ben diverse da un Nord Est monolitico, in cui – rileva Marini sulla base di alcune indagini appositamente condotte – convivono riferimenti territoriali locali, regionali e nazionali. Un Nord Est, però, in cui difettano tuttora forme di rappresentanza consce di questa crescente complessità.
Il tema è quello, critico, della classe dirigente: confrontandosi con altre ricerche rivolte a quest’ultima, infatti, l’autore marca la necessità di “costruire un maggiore senso di responsabilità sociale presso tutte le componenti, pubbliche e private. Perché le sfide che la competizione internazionale comporta richiedono un ceto dirigente dotato di dimensioni valoriali, culturali e professionali nuove, la cui formazione non può essere lasciata alla spontaneità, ma va programmata accuratamente e resa permanente”.
Che cosa resta allora, sulla scorta di queste considerazioni, di quella “etichetta Nord Est” che negli anni era divenuta tanto familiare? Poco, si potrebbe affermare sulla base delle analisi svolte da Marini. Un “poco” – sembra tuttavia dirci l’autore – che è misura dei limiti di quell’etichetta, non dei processi che stanno investendo l’area, ancora degni di essere studiati. Dopotutto, il laboratorio è il luogo per eccellenza della sperimentazione e, in laboratorio, non si entra con coordinate note. Che senso avrebbe, diversamente, l’esperimento?