Dato che i suoi indici di popolarità sono in calo, Matteo Renzi ha lanciato da Milano, all’improvviso, l’ipotesi di un piano pluriennale per ridurre le imposte, iniziando da quelle sulla prima casa, nell’arco dei prossimi tre esercizi finanziari, così da ridurre la pressione fiscale di 55-80 miliardi di euro.

È un programma, per ora delineato in termini molto generali, che deve essere preso sul serio. In queste settimane, è andato a ruba un libretto, gustosamente illustrato da Vincino, del centro studi ImpresaLavoro E io pago, in cui 17 esperti dei più differenti ambiti della cultura e delle professioni (non solo economisti) denunciano la vera e propria “oppressione fiscale” che schiaccia l’Italia. Tuttavia, il programma deve essere specificato e quantizzato nei dettagli, anche per non dare adito a illazioni (provenienti proprio da “ambienti di Palazzo Chigi”) che potrebbero rendere l’intera operazione inefficace e inefficiente – farla anzi diventare un ‘boomerang’ nei confronti del Governo.



Un programma di tali dimensioni si finanzia: a) o aumentando il disavanzo di esercizio e il debito pubblico; b) o incrementando altre tasse e imposte; c) o riducendo la spesa pubblica. Il metodo a) ci è praticamente vietato dai Trattati europei; nonostante gli sforzi del Governo, l’Italia ha ottenuto pochissima flessibilità a riguardo. Come è d’uopo in un’unione monetaria. Fu il metodo – vale la pena ricordarlo – applicato negli Usa dalla prima Amministrazione Reagan; una conseguenza fu un forte deprezzamento del dollaro. A noi ciò è chiaramente precluso; potremo, al più, ottenere di superare temporaneamente e per solo qualche decimale il vincolo secondo cui l’indebitamento delle pubbliche amministrazioni non possa superare il 3% del Pil se il superamento è necessario per investimenti quali quelli del Piano Juncker.



Il metodo c) dipende dalla spending review che sinora non ha dato grandi risultati, nonostante il susseguirsi di commissari. Tuttavia, molto si può fare in materia di riduzione della spesa di parte corrente. Non tanto sulla base delle 72 pagine di Executive Summary stilate da Carlo Cottarelli in persona e le 721 dei rapporti dei gruppi di lavoro all’uopo istituiti, documenti dove non mancano buone idee ma prive di metodo. In Italia tale metodo è stato introdotto nel 1982 in via sperimentale per una piccola parte dell’investimento pubblico. Nel 1985 e nel 1991 l’allora ministero del Bilancio ha pubblicato, con il Poligrafico dello Stato, manuali, successivamente aggiornati dall’Uval (l’unità di valutazione che ha avuto differenti collocazioni istituzionali). Nel 2006, la Scuola Superiore della Pubblica amministrazione ha pubblicato un’aggiornata guida operativa. Nel 2012, il Cnel ha approvato un documento di osservazioni e proposte per aggiornare i parametri di valutazione a una fase di crescita lenta ove non di stagnazione.



In parallelo con questa letteratura “ufficiale” c’è stato un rigoglio di testi privati anche a ragione delle attività dell’Associazione italiana di valutazione e della rivista e collana di libri pubblicati dal sodalizio. Dal 1999 una legge ricalca la normativa americana che richiede analisi costi benefici per ciascuna legge di spesa. Ma non viene applicata. Non è stato neanche adottato, pur se proposto, il méthode des choix budegettaires che negli anni Ottanta in Francia ha permesso di mettere ordine nella spesa e, quindi, di giungere al Trattato del Louvre sulla parità di cambio tra franco francese e marco tedesco.

Esiste comunque quindi, un metodo forte e diffuso: sino al 2008, quando la Scuola di Pubblica amministrazione (Snpa) ha deciso di non proseguire su questa linea. La Snpa ha tenuto circa 300 corsi di formazione per funzionari e dirigenti a carattere sia polivalente che per settori specifici (beni culturali, istruzione, agricoltura, trasporti e via discorrendo). Dunque, c’è anche il personale formato, almeno nella metodica di base. In via sperimentale, poi, il ministero dell’Economia e delle Finanze, la Fondazione Ugo Bordoni e altri hanno affrontato metodiche più avanzate. Quindi, c’è un terreno su cui costruire, se si vuole. Ma non darà risultato in tempi brevi. E l’orizzonte temporale di Renzi è la primavera 2018.

Quindi si andrà verosimilmente al metodo b) – un po’ il “gioco delle tre carte” utilizzato nel recente passato. Ora, però, le autonomie non sono pronte ad alzare balzelli locali per compensare la mancanza di gettito derivante dalle riduzioni tributarie per assicurare a Renzi un nuovo lungo soggiorno a Palazzo Chigi.

L’idea è di re-introdurre la “tassa sul morto” (l’imposta di successione) sui ceti medi abbassando la franchigia (ora un milione di euro) a 200 mila euro e portando l’aliquota al 20% (ora la più elevata è l’8% per lasciti a terzi con cui non si è lontanamente imparentati). Nessuno ha detto a Renzi che quando tale tassa era in vigore i costi di esazione superavano il gettito: alla “vittima designata” (Renzi sappia che tale lo considerano non solo l’opposizione interna al Pd ma anche numerosi suoi “amici”) certe cose è meglio non farle sapere. Infatti, le bozze di provvedimenti sulla “tassa sul morto” stanno diventando l’arma in mano ai complottatori.

L’idea è stata partorita da emuli di Thomas Piketty in quel di Tor Vergata, i quali però non hanno tenuto conto né degli aspetti “deboli” nel pensiero e nei numeri del loro “maestro”, né delle implicazioni. In primo luogo, l’ultimo rapporto Istat alla mano dimostra che in un’Italia che invecchia anziani e pensionati sono la principale fonte di risparmio (per proteggere figli e nipoti) e che il 25% delle pensioni dei ceti medi viene destinato a costituire previdenze integrative o altri supporti per le giovani generazioni – proprio quelle che Renzi dice di voler tutelare e che sarebbero le più colpite dalla sua proposta. Sarebbe un colpo durissimo alle famiglie, su cui Renzi dice di appoggiare il proprio consenso elettorale.

In secondo luogo, nei paesi in cui la “tassa sul morto” è stata re-introdotta e portata ai livelli elevatissimi (i maggiori nell’Ue) di cui si parla, capitali e investimenti sono corsi all’estero, con le conseguenze che si possono immaginare su crescita e occupazione. In breve, sarebbe uno schiaffo a Franco Modigliani che teorizzo il “ciclo vitale del risparmio”. Circolano aliquote e soglie di franchigia anche sulla stampa. Presumibilmente per dare modo a chi può di trasferire i risparmi all’estero.

Perché tanto accanimento contro il povero Modigliani? Qualcuno al Nazareno ha letto un libretto edito circa vent’anni fa da Vallecchi di Firenze Dialogo tra un Professore e la Banca d’Italia – Modigliani, Carli e Baffi di Paolo Peluffo, Consigliere della Corte di Conti di sede proprio nella città del Giglio? Nel libro si racconta come venne creato quel modello econometrico della Banca d’Italia che causa tante puntatine di spillo all’Esecutivo. Unitamente al teorema sul ciclo vitale (che mette a repentaglio tagli e tasse, specialmente se sul morto) ce ne è abbastanza per chiedersi perché questo Unitalian si fregi di un Nobel che dovrebbe essere rottamato.

Leggi anche

FINANZA E POLITICA/ Tasse, il "gas" che porta Renzi contro l'EuropaSCENARIO/ Più riforme = meno tasse, il patto con "l'inganno" del GovernoRENZI vs UE/ Il gioco delle tre carte sulle tasse